Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

venerdì 28 maggio 2010

"Il Ballo" di Irène Némirovsky

More about Il ballo

Prendiamo l’Irene a piccole dosi. Malgrado la sopraggiunta "popolarità" dell'autrice, che oramai non si legge più grazie soltanto ad un semplice passaparola, come era qualche tempo fa, ci andiamo cauti.
Cominciamo a sentirci costretti, su questo punto. SAPPIAMO quel che ci si aspetta da noi: dovremmo leggere Suite Francese. Dovremmo leggere (PRIMA) I doni della vita, e poi di seguito Suite Francese; sappiamo che dovremmo comperare la biografia edita da Einaudi. 
Ma non è ancora arrivato il momento, benché la pressione stia salendo in maniera inesorabile. 

Ma resistiamo. Resistiamo perché ci piace fare le cose a pezzettini minuscoli, e poi mettere insieme il tutto soltanto quando siamo estremamente pronti. Per il momento ci limitiamo a piccoli morsichini, anche perché, in questi nostri tempi frenetici, in redazione si sente la necessità di questa letteratura di passo lento, fatta apposta per ricordarCI che, una volta, le storie si leggevano così. Pubblicate a capitoli sulle riviste settimanali oppure negli inserti della domenica dei quotidiani. E occorreva aspettare, e godersele, quelle storie. Occorreva aspettare l’uscita della rivista, oppure toccava stare composti a tavola, buoni e zitti, gli occhi avidi sul giornale che papà non aveva ancora terminato di leggere.

Che cos’è, “Il ballo”.
Noi lo prenderemmo come un folgorante esempio di cattiveria umana - e letteraria. Così, semplicemente.
Prima di tutto letteraria, ché, una persona così, che al suo secondo lavoro riesce a condensare in meno di 100 pagine udito, olfatto, vista, gusto e tatto, se la provi a cercare non la trovi neanche tra mille. L’Irene è fatta per rammentarci quel piccolo grande segreto che molti pseudo-scrittori di oggi si dimenticano: che scrivere non è per tutti.

Ci piacciono le sue descrizioni piantate a mezz’aria, un particolare per l’intero, il tutto percepito attraverso il dettaglio: le braccia nude sul vestito di chiffon color pesca, l’aria fredda della sera, il personale incompetente e poco affezionato ai nuovi padroni, fotografato nell’atto volgare e esemplificativo di tracannarsi lo champagne, tra risa sguaiate, di nascosto in una stanza di servizio. La carne in gelatina esposta sul tavolo di portata, le luci scintillanti moltiplicate dal gioco degli specchi.

Specchi e stoviglie d’argento che riflettono il viso tirato, sconvolto, dai tratti quasi scimmieschi, della madre di Antoinette. Una donna gretta, presuntuosa e prepotente, arricchita grazie alle sostanze di un marito abile negli affari ma poco propenso all’analisi interiore, di sé e degli altri (e qui, non si nega all’Irene una certa qual supponenza di giudizio – davvero giovanile – che la spinge a pensare che forse le “pescivendole” di estrazione proletaria, anche se arricchite e “ripulite”, sempre pescivendole debbano rimanere. Ma forse c’è anche dell’altro).
Che poi, d’altra parte, il viso di Antoinette non è che si discosti molto da quello di sua madre. Il suo sorriso, alla fine, sa più di indulgenza e distacco, commiserazione e disprezzo, piuttosto che intimo compatimento.
Lo scherzo crudele e veramente cattivo di Antoinette svela molto altro, rispetto alla semplice bravata adolescenziale tra le quali lo si vorrebbe, per indulgenza, annoverare. Rivela mancanza di raziocinio, intelletto e maturità, egoismo, rabbia profonda e una buona dose di cinismo che davvero lascia stupefatti. E’ sempre impressionante vedere come una ragazza di buona famiglia come l’Irene, all’apparenza così integrata nel sistema e nella società, potesse covare dentro di sé simili sentimenti autodistruttivi.

Non riusciamo a condannare Antoinette, così vulnerabile, infelice, abbandonata e dimenticata in uno sgabuzzino per le scope, in compagnia di un’istitutrice che di didattico e di realmente morale le insegna ben poco, tranne che l’arte della Pomiciata-con-il-fidanzato, consumata dove capita, dopo aver scaricato la ragazzina dovunque e a chiunque, solo per liberarsene e non averla tra i piedi. Eppure la bambinaia è istruita, e parla inglese. E’ di moda, avere un’istitutrice avvezza alle lingue straniere.

Eppure, per la madre di Antoinette, ci troviamo a non poter spendere una che una parola di conforto. Si potrebbe pensare ad un’infanzia di povertà, alle difficoltà della gioventù, ai tentativi di affrancarsi da una realtà misera e negletta.

Gli specchi della sala da ballo, tuttavia, mostrano anche un’altra immagine, quella dell’adulta Antoinette, a sua volta ricca signora, e forse moglie, e madre. E’ una visione ancora imperfetta e sfocata, appannata dall’incertezza. Eppure c’è.
Quel sorriso creato ad arte, quelle frasi a metà (un flashforward ante litteram) sussurrate al fidanzato - vero o presunto: “quanto ero stupida, che cosa ridicola” fanno già intendere il fine verso il quale l’Irene ha puntato.

La nemesi storica, le colpe dei padri che ricadono sui figli, che vengono corrotti e sfregiati nell’animo, per sempre, da famiglie assenti e da madri “pescivendole” nell’animo.
Un decadimento spirituale che sa anche un po’ di denuncia morale
Madre, sono un mostro, così mi hai creato, come cera nelle tue mani. Da brivido.

mercoledì 26 maggio 2010

Consigli per la lettura 1: Anna Karenina in metrò

La nostra amica (per ora conserviamo l'anonimato, visto che solo domani scoprirà di essere stata pubblicata) giusto oggi ci ha inviato questa email, che citiamo integralmente:

sono senza libri, domani devo andare a comprare qualcosa... non so cosa però!

Onore alla C, che ha vinto il primo blogcandy che più virtuale di così non si può (visto che non avevamo indetto alcun blogcandy e quindi, di conseguenza, non abbiamo neppure un gradito premio da spedirle a casa): C è stata la prima lettrice a richiedere un consiglio di lettura. Senza saperlo, per altro. 

Speriamo non le dispiaccia, se prendiamo a prestito la sua email; ci viene comoda perché per il nostro primo "consiglio di lettura" avevamo proprio bisogno di qualcuno che conoscessimo di persona, così da tracciare un suo "profilo di lettore" il più accurato possibile. Quando invece, a chiederci consigli, sono persone sconosciute, ci occorre mediamente qualche giorno in più, perchè dobbiamo approfondire il profilo con domande e quesiti specifici da porre al diretto interessato.

C ha circa 30 anni, un marito, un bambino che frequenta la scuola materna e un lavoro full time. Legge molto - per lo più narrativa contemporanea - ma non disdegna fantasy e giallo, quando interessata all'argomento trattato. Si destreggia con l'inglese, tanto da affrontare anche testi in lingua, e ha un'ottima memoria. Rimane spesso perplessa di fronte a titoli bestsellers, soprattutto stranieri, e si dedica con piacere a opere di autori italiani. Ci domandiamo se possa essere interessata al racconto, oltre che al romanzo.

Ora, cominciamo la nostra analisi da un dato di fatto. Per quanto C possa amare, poniamo, Tolstoj, Anna Karenina non sarebbe la lettura da affrontare al momento presente. Il problema è proprio questo.

Molti lettori varcano la soglia della libreria ponendosi il medesimo quesito della nostra lettrice.
Sono rimasti SENZA LIBRI da leggere, sentono l’esigenza di COMPERARSI QUALCOSA, ma di idee, neppure l’ombra.
Così, si entra in libreria, si gira a caso, si legge la quarta di copertina, si butta un occhio alla foto, e poi si scelgono titoli che rimarranno intonsi sul comodino, col segnalibro fisso per mesi a pagina ventisei.

Questo succede a causa di tanti fattori, prima fra tutti la grande offerta a scaffale, che talvolta inibisce il lettore meno avvezzo all’arte dello slalom gigante tra gli espositori e spinge all’acquisto compulsivo di, nell’ordine: il libro con la fascetta patinata “100.000 copie in una settimana” (se l’hanno comperato in tanti, vuol dire che è bellissimo), l’opera prima del giornalista famoso (non si può dire “non l’ho letto”), il romanzo con quel titolo così accattivante (sicuro si tratta di un thrillerone... e poi a casa scopriamo che di morto c'è soltanto il gatto, e non c'entra niente con tutto il resto, e abbiamo impiegato sei mesi per finirlo perché l'autore è uno scrittore asiatico che utilizza così tanti termini appartenenti alla sua lingua madre da aver bisogno del dizionario a fine libro).

Ma non è soltanto questo, il punto. La sventurata situazione di cui sopra (il segnalibro fisso a pagina ventisei) accade prima di tutto perché la scelta del libro, talvolta, non è consapevole quanto dovrebbe. Questo perché il lettore riflette, come giusto, sui propri gusti, ma non sul proprio tempo – e sulle modalità di lettura a cui è avvezzo, o di cui ha bisogno.

Spieghiamo meglio.
Ritorniamo ad Anna Karenina, che pure è Anna Karenina. E non aggiungiamo altro sulla meraviglia di un’opera splendida che merita non una lettura, ma trecento di fila, anche a random di capitoli.

Malgrado la preziosità del testo, sarebbe forse inutile, che C, sebbene attratta dal suo interesse personale, oggi entrasse in libreria, se lo comperasse ed iniziasse a leggerlo. ORA.
Sapete cosa potrebbe succedere?

C, tra un mese, parlando di libri con le sue amiche, potrebbe lamentarsi del fatto che sì, ha comperato Anna Karenina ma non ha neppure terminato la prima parte; e così si è innervosita, perché non legge come e quanto vorrebbe. L’edizione ha i caratteri piccoli, è troppo pesante da portare in borsa. Non riesce a concludere un capitolo e quando riprende il libro, a ore e ore di distanza, deve tornare indietro, al paragrafo precedente, a cercar di ripescare quanto si è persa nel frattempo. Ecco, non è proprio fatta per libri “difficili”. Basta, non leggerà più per un po’.

Ora, keep it easy. C, non è che sei sbagliata tu. Hai semplicemente sbagliato libro.

Abbiamo cercato di immaginare le modalità di lettura, di C. - le dobbiamo ancora verificare con lei, ma siamo ragionevolmente certi che la situazione non sia molto differente da come ce la siamo figurata.
C probabilmente legge sul metro (5, 6 fermate), alla fermata dell’autobus e alla sera, a letto, dopo aver concluso i lavori domestici e dopo aver messo a letto il bambino. Probabilmente riesce a dedicare alla lettura qualche mezz'ora nel week end, al pomeriggio.
Quindi, C al momento non ha bisogno di un libro che richieda una lettura lenta e continua.

Al contrario, ha bisogno di qualcosa di agile, veloce, che si possa frammentare (su e giù dal tram) senza sacrificare stile e soprattutto senso logico della trama; qualcosa che possa essere ripreso, lasciato e poi riacciuffato, in quei 15 minuti disponibili tra un impegno e l’altro. 
Non per questo C deve rinunciare ai grandi classici o alla letteratura di nicchia. Si tratta solo, semplicemente, di trovare IL LIBRO GIUSTO. Il libro giusto al momento giusto, occorre specificare, perché la nostra ricerca non può che possedere un alto grado di relatività.

Sotto l’ombrellone, ad agosto, in vacanza, mentre la nonna coccolerà il nipote e il marito riposerà a casa o sarà immerso nelle sue, proprie, letture, C potrà dedicarsi alle meraviglie di un testo quale Anna Karenina, che, ne siamo sicuri, amerà alla follia.

Abbiamo riflettuto sulle preferenze di C, le abbiamo chiesto di girovagare un po’ per il blog per questo primo esperimento di “lettura pilotata” e di verificare, utilizzando le etichette, qualche libro interessante che appartenesse alla categoria “lettura veloce e frazionata”.

Ne è uscita, guarda caso, la Teresa Solana, che C ha appena terminato. Siccome i libri recensiti sono ancora pochi, per questa volta ci abbiamo messo del nostro. Ecco quindi, una “wish list” personalizzata per lei. Da verificare in libreria, sfogliando pagine e leggiucchiando capoversi sparsi.
Ci auguriamo che C torni da noi e ci mandi notizie: chissà se le opere che le abbiamo presentato le piaceranno; noi siamo sicuri che almeno uno tra questi titoli incontrerà il suo gusto così speciale.

- Irene Nemirovsky, Il ballo, 2005 Adelphi (qui)
- Nanae Aoyama, Un bel giorno per rimanere sola, 2010, Salani (qui)
- Sabina Morandi, Il pozzo dei desideri, 2010, Edizioni Ambiente
- Gatano Savatteri, Uno per tutti, 2008, Sellerio Editore Palermo
- Letizia Muratori, La casa madre, 2008, Adelphi
- Peter Cameron, Paura della matematica, 2008, Adelphi

domenica 23 maggio 2010

"Quello che le mamme non dicono", di C. Cecilia Santamaria

More about Quello che le mamme non dicono
La "prima" sapeva di venerdì sera, di Milano d'estate, di sole al tramonto sulle guglie del Duomo e, naturalmente, di spritz - S/L

Perché consigliamo la Chiara, anzi (ci perdoni), la Wonder, ché chiamarla con il suo nome di battesimo oramai, dopo quasi due anni e una quantità inestimabile di post, ci risulta un tantino difficile. A dire la verità, il perché, ce l'ha spiegato con dovizia di particolari la nostra collaboratrice S/L - autrice della chiosa di cui sopra. Venerdì sera, al telefono, dopo la presentazione milanese del libro. 

Perché la Wonder, la realtà te la racconta così com'è. 
E questo vale per il contenuto ma anche per la forma. 

Uno stile fresco e schietto, un rimescolio frizzante, quella capacità tutta italiana di portarsi dietro (e dentro) la lingua dello studio e dell'apprendimento (l'italiano nazionale), insieme a quella, più radicata e antica, del dialetto, della terra, della famiglia, delle origini.
E' grazie a questa freschezza di stile "alla romana" che le narrazioni di Wonder acquistano quel sapore di vita e realtà che le fanno così particolari.

Come se l'argomento non fosse sufficiente. "Quello che le mamme non dicono" è tutto ciò che ogni mamma nasconde di sera sotto al cuscino, come un fazzoletto ben ripiegato; tra le pareti domestiche, nell'intimo del cuore. Ombre profondissime nascoste nell'animo di ogni donna. Ombre a cui le mamme di oggi, forse, non sono più disposte ad accondiscendere in nome di un tabù sociale sempre vivo e presente.

Il successo del blog da cui è stato tratto il libro fa riflettere. Potremmo pensare ad una operazione di marketing ben riuscita e osservare il tutto con distaccata diffidenza, ma poi dovremmo fare i conti con una delle fondamentali leggi della pubblicità: il marketing c'è dove c'è pubblico, potenziale o acquisito. 

Ciò sta a significare che il mondo delle mamme-spritz forse è più vasto di quel che si pensa: è un luogo sotterraneo, ancora in sperimentazione, perché le mamme di oggi conoscono alla perfezione (e anche troppo) il luogo da cui partono ma non conoscono assolutamente nulla del punto di arrivo, che non è neppure, lontanamente, immaginabile. 

E' una realtà parallela, di sprazzi di luce incantevole. Una femminilità intima e auspicata, un'identità da conservare e coltivare con costanza, fatica, impegno e, perché no, anche con la leggerezza di una sana risata.

giovedì 20 maggio 2010

“Durante”, di Andrea De Carlo

More about Durante

Vorremmo recuperare questa “vecchia” recensione, che avevamo conservato nel cassetto, ad uso e consumo dei due preziosissimi “insider” (ma veramente molto insider) con cui ci siamo ritrovati a parlare per caso (ma non tanto per caso, vista la giornata), di case editrici e sperimentazioni stilistiche, sul FrecciaRossa Mi-To, la mattina di venerdì 14 Maggio.

Non si tratta di un’analisi contenutistica e stilistica vera e propria, per cui consigliamo (come per tutti i nostri testi d’altra parte) una propedeutica lettura del libro, precedente alla lettura del post. Pena: l’incomprensibilità di alcuni punti (ferma restando l’ipotesi – quanto mai IPOTETICA – che i punti in questione possano, con la lettura, divenire comprensibili. Del che, dubitiamo fortemente. Ma comunque).

- Conosciamo i cognomi di tutti tranne che quelli di Pietro, Durante e delle due donne da cui Durante ha avuto figli. Curioso.
- Molto focalizzato: la cascina, i campi, il verde, le strade interpoderali.

Cfr ovviamente con Guido Laremi & Mario (devo ricordarvi che stiamo parlando di “Due di Due”?): ci piace l'idea di un De Carlo “civilizzato” (De Carlo, ci perdoni), tutto grazie a un “rimescolamento di personaggi”: Durante potrebbe essere un Guido Laremi "sopravvissuto", e Durante, in potenza, un Mario modificato dagli eventi.

Ci piacciono le sfumature senza contrasti: non società industriale & percorso prestabilito contro mondo creato e costruito a immagine e somiglianza dell'animo, ma due mondi già alternativi che si scontrano e si rivelano (anche l'alternativo dopo un po' si trasforma in tradizione, abitudine, routine?)

Cfr l'idilliaco clima bucolico di “Due di Due” con il caldo torrido delle Marche… se cresci tu, crescono anche i luoghi, e diventano difficili, aspri, inaccessibili.

Attenzione alle non-chiusure. Durante sparisce, Pietro… chissà.
Pietro termina sempre i suoi lavori al telaio, mentre questo lavoro invece (la vita che, dice Durante, quando l'hai capita, è ora di finirla) rimane incompiuto, perché ognuno può finirlo come gli pare.
Andate a riguardare l'intervista podcast di Fahrenheit: illuminante. 

Attenzione alla fruizione attiva e immediata del libro, e alla modalità di lettura. Forse sarebbe da rileggere con calma, un volta terminato, ma ci parrebbe un tradimento nei confronti della teoria della fruizione… eppure, se sei troppo preso dalla teoria, non ne esci più… Durante docet e fa riflettere su cose in parte dimenticate, su atteggiamenti che la routine nasconde, su pensieri che bisognerebbe coltivare, tutti i giorni.

“Scorciatoia per il paradiso”, di Teresa Solana

More about Scorciatoia per il paradiso

Teresa Solana si impegna e getta le basi, metodica, attenta. Una puntata zero, quella del primo romanzo, descritto nel post precedente. Giusto per capire se i due fratelli detective più improbabili del mondo, e tutto ciò che li circonda, fossero all’altezza del pubblico sovrano – e lo sono, a quanto pare, cosa di cui avevamo già discusso.

”Scorciatoia per il paradiso” è invece una puntata uno: come dire, l’inizio di una nuova serie tv che speriamo faccia presa sullo spettatore, malgrado la posizione defilata e il target piuttosto di nicchia. Sperando che, esemplare di nicchia, ci rimanga.

Dietro il turbinare di paragrafi, personaggi, situazioni intricate e rimandi contorti, la struttura è lineare, limpida ad occhio attento.
Teresa Solana lavora con metodo. Prima di tutto, rifinisce le trame. Determina luoghi e paesaggi e da persona intelligente mette in pratica quel che tutti i romanzieri con le controsuddette insegnano: nel primo libro – che per noi è il secondo, ma va bene lo stesso per i fatti di cui sopra – parla di ciò che conosci. Quindi, via a ruota libera a parlar di letteratura, critica, cultura e snobismo delle Lettere, ché di argomenti ce n’é da vendere.

L’assassino c’è, i mezzi per individuarlo pure, e la trama va via liscia senza troppi orpelli. Ma occorre rifletterci sopra, e vediamo il perché (*).
Sistemata la trama, su cui torneremo, la Nostra si accomoda sui personaggi.
Non soltanto i due fratelli Estivill – Martínez con tutte quelle loro personalità multiple che abbiamo già imparato a conoscere e con cui ci sentiamo (per osmosi, direi) in intima confidenza – non soltanto, sicché loro due, da soli, qui non possono funzionare.
Perché (e vedi sopra alla voce asteriscata) non siamo in presenza di due moderni Holmes / Watson, neppure se li immaginiamo un po’ caratterizzati e ri-costruiti ad immagine e somiglianza di R Downey Junior e J Law.

I due fratelli detective dilettanti non avrebbero ragione di esistere, e nemmeno un grande spessore letterario, privi di ciò che li circonda: Borja con le sue amicizie altolocate, le amanti danarose e un po’ svampite, i traffici al limite dell’illecito con personaggi loschi e demodè; la famiglia di Eduard, la moglie Montze e il suo centro benessere alternativo, la sorella post-hippie Lola, le due gemelle che si muovono sempre in coppia e fanno realtà a sé all’interno della famiglia, e il piccolo Arnau, lingua svelta e occhio vigile.

E fin qui ci siamo, all’opera zero.
La nostra Solana però si rende conto di come, tra tutti questi personaggi, pochi potrebbero aspirare al ruolo di comprimari (siamo sempre qui, a parlare della storia del “personaggio non conveniente”).
E allora se li inventa, con la promessa di farceli ritrovare – almeno, quelli più riusciti - nel plot delle puntate prossime: noi si scommette sull’ex detective in pensione - passato misterioso, vita criminale, occhio di falco, memoria di ferro - e sul commissario di polizia, lo sguardo di ghiaccio e il fare da duro.

Ora. Ci era parso che questa Solana ci ricordasse qualcuno, ma non ci sovveniva chi.
Allora, siccome era idea che non ci lasciava dormire la notte, ce la siamo riletta tutta, piano piano, fino a che non siamo incappati nel piccolo Arnau. Che non dice, non fa, non parla se non per brevi accenni, ma si limita ad esistere, all’interno del microcosmo della famiglia Martìnez.
Ebbene, l’illuminazione ci è venuta proprio pensando a questo piccolo comprimario.

Con meraviglia sempre crescente, lo abbiamo magicamente sovrapposto, senza tanta fatica, ai “piccoli” di casa Malaussene (Il Piccolo e E’ un Angelo, per intenderci).
Il nostro vecchio, caro Benjamin è un Eduard ante litteram, con i suoi problemi di liquidità, di figli perduti e ritrovati, genitori svampiti, delitti irrisolti all’interno dei quali si trova, per la consueta legge Pennac sul capro espiatorio, infilato d’imperio da chissà quale demone celeste. Benjamin Malaussene se ne va in giro per una Belleville cosmopolita e fragrante, tale qual è la Barcellona dei due fratelli Estivill – Martínez, così feconda di profumi, gente, storie e vita.

Morale della Storia, vale qui la medesima nota su cui avevamo riflettuto per “Delitto imperfetto”. Eduard e Borja funzionano perché sono tutto tranne che eroi senza macchia e senza paura. Sono autodidatti e pasticcioni, sovrani indiscussi dell’arte (tutta italiana, verrebbe da dire) dello scrocco e dell’arrangiarsi alla ventura, arte che però risulta posticcia e provvisoria, foriera di risultati bislacchi e – a buon guardare – senza capo né coda, e dal futuro incerto.
Un esempio per tutti, la conversazione con l’ispettore di Polizia, che alla fine ne sa più di tutti malgrado le vanterie dei due fratelli che, come fossero investigatori navigati e abili giocatori d’azzardo, blaterano alla stregua di provetti CSI di fronte alle rispettive consorti, perse in un mare di estasi erotica, di fronte ad un piatto di paella (o uno di spaghetti al ragù... stessa faccia, stessa razza) e un buon vinello fresco che va giù che è un piacere.

Chi di noi non l’ha mai fatto, diciamocelo: vantarsi per le proprie, minime glorie e ipotetiche fortune, tra un antipasto e uno spritz, conscio di essere sul punto di cacciar una panzana più grossa dell’altra, senza riuscire, tuttavia, a resistere all’idea di vedere la donna amata (o soltanto desiderata) sciolta e cotta a puntino in un brodo di giuggiole dall’alta carica erotica? Chi non l’ha mai fatto, va bene, alzi la mano.

Nota a margine: qualche congiuntivo in più, nella traduzione, avrebbe, come dire, agevolato.

“Delitto imperfetto”, di Teresa Solana

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E’ interessante la Teresa Solana. Arrivata per caso in redazione grazie alla collega M, talent-scout senza la quale la ricerca di titoli interessanti diventa per alcuni di noi, meno dotati, un’inutile lotta senza quartiere, è bel diversivo; che poi, a pensarci bene, tanto diversivo non è.

Con grazia tenera e irriverente la Teresa descrive noi stessi, le nostre fobie chimiche di esseri umani di mezz’età naufragati tra famiglia, lavoro, conti in rosso, spese a fine del mese, figli piccoli da accudire, figli grandi da rimproverare, famiglie scapestrate.
E’ bello e confortante sapere che in un certo senso non siamo soli, ma viviamo in un mondo in cui l’essere umano, pur con tutte le sue debolezze, illusioni, dispiaceri e infelicità, pur così vittima del suo tempo e della sua precarietà, acquista, di tanto in tanto, un ruolo di primo piano.
Ci piace questo “swing” mediterraneo che tanto assomiglia (per una volta) al nostro, del vivi e lascia vivere, delle cose un po’ per caso, delle regole rispettate per metà, della furbata “all’italiana” che immancabilmente si ritorce contro chi l’ha commessa e che nonostante tutto in qualche modo paga.
Ci piacciono questi uomini che ammettono l’errore, che agiscono contro logica, che non si fidano di asettiche “procedure” e sentimenti frigidi e stereotipati in puro stile hollywoodiano.
Un bel respiro, senza pretesa alcuna di essere “d’esempio” a nessuno. 

“Ritorno a Brideshead”, di Evelin Waught

More about Ritorno a Brideshead

Ci eravamo interessati a questo Evelin Waught grazie ad un articolo a firma Maurizio Porro apparso mesi fa sul CorSera, contemporaneo all’uscita del film ("Lui ama lui, passione impossibile"). Chiediamo fin d’ora perdono agli amici lettori e soprattutto all’autore dell’articolo, perché, nella nostra furia maniacale da collezionisti autodidatti, abbiamo scandalosamente dimenticato di appuntarci data e pagina da cui abbiamo estrapolato la nostra nota. Si dà il benvenuto a chi voglia darci una mano nel recupero di dati certi.

Il film, noi, non lo abbiamo visto e quindi non possiamo esprimere giudizio. Da quanto però ci era parso di aver capito (anche qui, i lettori ci confutino se occorre, saremo ben lieti di rettificare la nostra visione parziale) la pellicola in questione offriva una visuale incentrata più sul rapporto ipotetical-omossesuale tra i due giovani ragazzi protagonisti della prima parte del libro, Charles e Sebastian, e sulla relazione amorosa intessuta successivamente (terza parte) tra Charles e Julia, sorella di Sebastan, piuttosto che interessarsi allo spaccato sociale dell’epoca e alle vicissitudini dei comprimari.
Effettivamente però, la parte che a noi ha interessato particolarmente sono stati proprio gli interni giorno, ovverosia tutto quel mondo d’Oltremanica descritto dall’autore in maniera così puntuale, attenta, verosimile. Ed emozionante.
Abbiamo trovato la tematica omosessuale della prima parte del volume sinceramente soltanto accennata. Charles è semplicemente un ragazzo, giovanissimo (19 anni), che appartiene alla sua epoca: estrazione borghese e cultura elevata, un’identità personale e un futuro ancora da scoprire; pochi rapporti con la famiglia, filtrati, come da consuetudine, dalla pesante coltre dei formalismi, delle regole sociali e da quelle educative proprie del periodo storico.
Sebastian, altrettanto giovane, è invece un adolescente inquieto e tormentato: di estrazione più elevata rispetto a Charles, è vittima di una situazione familiare che noi oggi, malgrado i cambiamenti sociali intervenuti nel corso di quasi un secolo, non esiteremmo a definire “problematica”.
Per inciso, è anche (FORSE) omosessuale.
Il cocktail, che poi si rivela essere la tematica di più rilevante importanza sottesa al romanzo, tra pulsioni giovanili (anche omosessuali, ma non solo, si veda la passione tra Charles e Julia), regole sociali e soprattutto religione cattolica, sarà fatale per l’esito del romanzo.
Ora, a livello di stile, c’è da inchinarsi di fronte al dono di Waught, quello della prolissità (!) della descrizione. L’incredibile esercizio di stile, la fatica dell’aggettivazione puntuale, la cura per la descrizione non soltanto dei personaggi, ma anche del paesaggio e dell’architettura fanno del romanzo uno spaccato veramente esaustivo dell’epoca.

Oltre che, per altro, evidenziare, con il gusto tipicamente anglosassone per la citazione e il confronto letterario, la nostra poca dimestichezza di “lettori medi” con la letteratura, il cinema e il teatro dell’epoca, che varrebbe la pena approfondire (si raccomanda l’utilizzo massiccio di Wikipedia durante la lettura per verificare accenni letterari, autori, opere letterarie).

Niente potrebbe scostarsi maggiormente dalla sintesi (lessicale e contenutistica) a dir poco compulsiva dell’Irene Nemirowskj. Quel che stupisce è la destinazione ultima (l’identificazione e la descrizione di una ben specifica realtà sociale – per altro in declino), pari e raggiunta con successo da entrambi gli autori seppur seguendo vie completamente diverse.

In alcuni punti, soprattutto per quanto riguarda la seconda parte, ci è parso di ritornar con la memoria a “The sheltering sky” (“Il tè nel deserto”, di Paul Bowles, Feltrinelli, 2006), che sinceramente abbiamo sempre ritenuto una delle opere di fantasia più emozionanti e intense relative ai “Grand Tour” del Maghreb.

"Il condominio", di J. G. Ballard

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Approccio scientifico per questo Ballard d’annata (classe 1975) che, nonostante l’età, presenta sempre (più) consistenti e attualissimi spunti di riflessione.

I) Componente sociogeografica (psicogeografia, ne avevamo già parlato per "Disturbo della quiete pubblica" - "Super Cannes")
II) Malattia mentale come strumento eletto e ultimo per la comprensione della realtà mutata.
III) Possibilità di evitare la limitazione di propri istinti antisociali attraverso una struttura (Eden Olympia / il condominio) che garantisce la quotidianità e la preserva
IV) Ambiente esterno – prime opere, Universo – ambiente interno (realtà modificata in un ambiente non fantascientifico, opere della “maturità”)
V) Violenza con connotazione non individuale ma sociale
VI) Il mondo nuovo che tende al caos – o meglio, alla costituzione di un nuovo ordine sociale attraverso la re-interpretazione del presente
VII) La ricontestualizzazione del brutto, del banale, del fuori moda, a confronto con lo stile, la pulizia delle linee (degli oggetti e... delle persone), il design, la consapevolezza della cultura e della conoscenza verso il dilagare degli aspetti primitivi dell’esistenza (quasi agognati).

NB. Avevamo già incontrato questo aspetto, quello della ricontestualizzazione, in un contesto completamente differente - ma forse non troppo, a ripensarci: torniamo di nuovo alla nostra ultima Oates, in "Sorella, mio unico amore"
Sono stati molto utili, durante la lettura, i vari interventi di uno tra i più eminenti studiosi di Ballard, Antonio Caronia. Vi invitiamo a consultare sul web la sua ampia bibliografia sull’argomento. 

"Malinverno", di Fabio Lubrano

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Ah, questo Malinverno. Dove l’abbiamo recuperato: alla Fiera del Libro di Torino 2009, ma era stato citato anche da Vanity Fair e da altre testate. Cogliamo qui l’occasione per ringraziare l’autore per la Sua visita alla pagina Anobii di una delle nostre collaboratrici, che per prima, con gran spirito di lungimiranza, aveva inserito il “Malinverno” tra le sue letture preferite e recensite.

Facile facile equiparare "il pinguino" Malinverno a simili altri presunti libricini giovanil-targati che vanno così di moda oggi. Basta tagliare qualcosa qui e là, che la realtà acquista tutta un altro significato.

Io direi piuttosto che NOI, i dettagli, ce li guardiamo, e anche bene. Infiliamo i nostri occhiali preferiti, quelli che usiamo tutti i giorni, quelli che quando siamo dall’ottico perché li dobbiamo cambiare ci sembra che nessuna montatura nuova, anche la più bella, ci vesta bene come la nostra.

Morale della storia, comperato alla Fiera dell’Est e scoperta una casa editrice che fa il suo lavoro e lo fa pure bene (appunti estemporanei: peccato non si siano presentati a Torino 2010!). Che dire.

Ci si commuove? Anche. Fa riflettere? Pure.
La scrittura va via fluida, con qualche lampo di genio perfetto che compensa alcune digressioni un po’ lente. Le orecchiette in basso si sprecano. Citiamone alcune.
Pag. 50, l’idea della scatola nella scatola nella scatola della prospettiva cosmica. Chi non ci ha mai pensato, sdraiato nel letto?
Pag. 62. “sarebbe molto più semplice se la donna della mia vita fosse legata a me con un nastrino colorato, (...), dovrei solo riavvolgerlo, giorno dopo giorno, mese dopo mese, magari anno dopo anno, però sicuramente finirei per ritrovarmela davanti agli occhi”. Che meraviglia.
Pag. 126. la questione del coraggio che se non ce l’hai, l’unica soluzione è fingere di averlo, o pag. 127 i deejay di alcune radio, che cercano di risultare simpatici a forza.
Pag. 207, il mondo, chi sta fuori, e chi sta dentro.

Il pinguino alla fine indossa la stessa maglia che indossava Veleno: dice, vi scongiuro guardatemi. E se non guardiamo il pinguino, allora siamo tutti un po’ Venere. Da leggere, provateci. Rimarrete stupiti. Poi tornare qui e diteci se ci abbiamo azzeccato, a consigliarvelo.

martedì 18 maggio 2010

"Il castello dei Pirenei", di Jostein Gaarder

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Abbiamo preferito procrastinare di qualche giorno l’analisi critica di quest’ultimo J Gaarder, poiché, indubbiamente, è libro per cui di necessità dovrebbe ritenersi fondamentale una riflessione attenta, puntuale e anche, diremmo, quasi “cross-funzionale”, oltre che lievemente strutturata.

Cominciamo prima di tutto col definire il genere letterario a cui appartiene, o meglio, a cui vogliamo far appartenere quest’ultima fatica dello scrittore-professore Gaarder. E’ romanzo, opera di fantasia e immaginazione; ma è anche trattato, opera di divulgazione, saggio interdisciplinare, così come gran parte dei suoi scritti.

Si è detto molto, nelle rassegne stampa e sul web. Romanzo lento e dal sapore posticcio, stile piatto e di empatia quasi nulla, personaggi inverosimili e costruiti a tavolino. Trattato dal sapore eccessivamente divulgativo per alcuni; per altri, al contrario, pagine ridondanti di dissertazioni filosofico-scientifiche di difficile comprensione / fruizione per i lettori (la maggior parte) non avvezzi alla materia.

Affrontiamo prima di tutto la questione genere letterario, dalla quale siamo partiti. Affrontare questo tipo di analisi relativamente a quest’opera significa abbandonare in parte i preconcetti, tipici del genere “romanzo”, a cui per certi versi ci hanno abituato le ultime letture della medesima tipologia. Non ci troviamo di fronte ad una sceneggiatura da film e di ciò occorre, come dire, farsene una ragione. Questi personaggi riflettono molto e agiscono poco, anzi per nulla. Il romanzo non è racconto di avventura, azione, sentimento, passione alla stregua di best sellers internazionali – o di una loro trasposizione cinematografica da colossal Holliwoodiano. Anzi, probabilmente ci troviamo di fronte ad uno dei libri meno cinematografici degli ultimi anni.
Ecco il perché, in parte, di una delle maggiori critiche portate al volume. Il lettore medio ha per certi versi perduto quella capacità di fruire di un romanzo da lettura lenta e ponderata, all’interno del quale sia preponderante l’utilizzo del pensiero e dell’immaginazione piuttosto che quello dell’azione e della descrizione dettagliata (fisica soprattutto, e poi emozionale), di personaggi e atmosfere. 
Abbiamo bisogno, a tutt’oggi, di avere ben in evidenza le fattezze di un personaggio, per innamorarcene o per disprezzarlo. Ci occorre avere un’idea che risulti quanto meno vaga possibile del suo corpo, dei suoi capelli, del suo sguardo, di ciò che vive, e dove; di ciò che sente, e come. La nostra capacità immaginifica è, per certi versi, andata perduta.
Eppure, di esperimenti di questo tipo ne è piena la letteratura. Basti pensare ai Dolori del giovane Werther, oppure alla “copia italiana” opera di U. Foscolo (le ultime lettere di Jacopo Ortis). La tradizione dei romanzi epistolari è lunga e attraversa ogni cultura e ogni epoca. 
Forse qualcosa è andato perduto, e occorrerebbe recuperare qualche antica tradizione letteraria che potrebbe offrire, ancora, diversi e notevoli spunti di riflessione.

Abbandoniamo per un momento la questione genere e personaggi per passare ad una breve analisi sulla parte più specificatamente didattica. Quel che ci preme qui sottolineare non è tanto la validità o meno delle tematiche espresse, su cui ci permettiamo di sospendere il giudizio, quanto la tecnica espositiva, che rivela, tendenzialmente, un approccio perfettamente scientifico votato ad una completa “analisi e accettazione del dubbio”.
Le dissertazioni filosofiche di Steinn non hanno alcuna pretesa di verità insindacabile o di inequivocabile giudizio morale. Semplicemente, Steinn esprime con valida e congruente arte dialettica ciò di cui ha fatto tesoro ed esperienza nel corso di decenni di vita: studi, esperienze, affetti, delusioni.

Prova evidente di questa posizione di estremo dubbio e totale apertura allo scibile, non soltanto la sua riflessione in quanto tale (il sogno della navicella spaziale, per esempio) ma anche l’agitazione, la riflessione continua, l’irrequietezza con cui Steinn, a mano a mano, affronta la corrispondenza con la (ex)amata Solrun.

Se dovessimo consigliare una tematica di base, sottesa, o meglio una chiave di lettura attraverso la quale affrontare questo volume, consiglieremmo una riflessione attenta sulla “liberazione dal pregiudizio”.

Prima di tutto con valenza endogena: entrambi i personaggi, dopo un percorso di crescita e maturazione, che Gaarder non manca di esporre con coscienziosità di giudizio, si liberano (in parte) da tutte quelle sovrastrutture intime, mentali e fisiche che avevano così caratterizzato (e condannato) la loro giovinezza.
Gaarder ammette, candidamente verrebbe da sostenere, se non fosse che le ammissioni sono da ricercare tra i meandri della scrittura e della “cultura giovanile” che lo scrittore dipinge in maniera sottile e si direbbe quasi incurante - dicevamo Gaarder ammette l’immaturità di certe tesi e di certi atteggiamenti tipici, se vogliamo, di una certa età anagrafica ma anche di certi ambienti e di talune epoche storiche.

La chiusura mentale del giovane Steinn, che per un gioco di specchi, irritante e menzognero, si ritrova da una parte ad assaporare la libertà fisica, mentale, di giudizio e di azione (tipica spavalderia di giovane uomo agli albori dell’esistenza) e dall’altra a rifiutare categoricamente non soltanto una via alternativa, ma addirittura, gli individui che di questa via alternativa si fanno profeti.
In questo senso, non ha miglior fortuna Solrun, che, dopo un’esperienza sensoriale certamente di dubbia origine, converge ogni sua energia nella ricerca di una realtà immateriale intrisa sì di religione, ma anche di mistica ed esperienze parapsicologiche.

La difficoltà di approccio per noi sussiste invero anche a causa della nostra “visione esterna della problematica” (un tantino pregiudiziale, vien da dire).
Indubbiamente la cultura nordica, per certi versi molto simile a quella anglosassone, si distacca in parte dalla nostra per quanto riguarda vari aspetti tra cui, per esempio, la concezione della famiglia, della religione, della società, il rapporto con la natura e/o l’ambiente che ci circonda.
Fatichiamo a comprendere questi due personaggi che ai nostri occhi potrebbero rischiare di apparire solamente quali sciocchi post-adolescenti girovaghi e irresponsabili, alla ricerca di emozioni adrenaliniche estreme per sfuggire alla noia dell’esistenza (e alle responsabilità che derivano da una vita adulta: scuola, lavoro, famiglia): la vita in una caverna ad imitazione degli uomini primitivi, le fughe in lande desolate, organizzate all’ultimo minuto, prive di qualsivoglia meta e omogeneità strutturale, i “colpi di testa”, le distrazioni (fatali, verrebbe da dire).

Il rapporto intenso, quasi viscerale, con la natura, l’acqua, la terra, il cielo, i fenomeni atmosferici; relazione unica con la natura e l’ambiente tipica di popolazioni che da millenni debbono fare i conti, al nostro contrario, con una natura selvaggia e indomita; una relazione di assoluta reverenza che porta ad una compenetrazione profonda, di completo rispetto e venerazione, per l’universo circonda l’Uomo le lo compenetra.
Potemmo pensare che il libro di Gaarder sia poco riuscito proprio per questa sua mancanza di adattabilità al contesto globale. Indubbiamente è un libro di nicchia, di certo non corrispondente ai canoni estetici più in voga. Anche qui, credo che la tematica dello “scampato pregiudizio” sia l’unico mezzo per riappropriarsi di una propria identità, unica e inalienabile, di lettore consapevole.

Per quanto riguarda il capitolo finale (da molti indicato come posticcio e inconcludente):
vorremmo lasciare libera interpretazione, con un solo, marginale spunto di discussione. In tutta la vicenda, il marito di Solrund rappresenta in un certo senso l’uomo di mezzo. Colui che, avulso da un contesto prettamente accademico, di conoscenza approfondita di tematiche e materie, si accosta al mondo con l’innocenza tipica dell’Uomo e la sua ingenuità.

domenica 16 maggio 2010

"Educazione siberiana", di Nicolaj Lilin

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Pareri contrastanti e fenomeno mediatico. Interviste, ospitate, tante parole. Peccato, ci viene da dire. Così ci si è rovinata la lettura, persa nell’idea secondo cui, PER FORZA, ce ne dobbiamo fare un’opinione. Quindi, morale della storia, o sei con lui, o sei contro di lui. Un fenomeno editoriale? Tante verità fittizie messe assieme così per caso? Uno spaccato di gioventù criminale con cui fare i conti? Chi lo sa.

Ad ogni modo, a noi questa Educazione Siberiana ha fatto venire in mente quelle vecchie storie che ascoltavamo quando eravamo ragazzi.
Quando, a scuola, la maestra invitava i nonni reduci della Seconda Guerra a parlare della prigione o dei bombardamenti, e noi li ascoltavamo in silenzio, un po’ intimiditi, seduti al banco con le braccia conserte. E ne uscivamo intorpiditi, con la mente invasa da immagini e colori e felicità e disperazioni, quando la mattina si era già fatta mezzogiorno e per una volta non ci eravamo resi conto del trascorrere del tempo.
Il ritmo narrativo è lo stesso, un tempo lungo, lunghissimo, antico, monotono e cantilenante, una storia nella storia, ogni accenno o digressione utile per un racconto parallelo che si intesse e si incastra nel precedente e nel successivo senza soluzione di continuità. (Astenersi chi cerca avventura e suspance alla maniera delle spyfictions made in USA).

Così erano le storie, quando ancora non c’era la televisione, a monopolizzare le nostre serate. Forse erano veritiere, forse un poco idealizzate; probabile, anzi, perché l’arte del ricordo è poesia soggettiva e di mutevole pensiero.
Eppure, erano queste storie a illuminare il nostro passato, a tenere la via libera dalla polvere della dimenticanza, quella strada sconnessa che congiunge il nostro passato – qualsiasi esso sia – con il nostro presente e con il futuro che verrà.

In questo senso non possiamo permetterci di definire questo ragazzo classe 1980 quale “erede di Saviano”. Tutto ci può stare, tranne che etichettare Educazione Siberiana come un libro documentario o un manifesto di denuncia. E’ semplicemente un ricordo, un rimembrare di tempi passati alla maniera dei vecchi cantastorie, inestimabili rappresentanti di tutte le culture e di tutti i tempi.

Con tutte le differenze del caso, viene da pensare che Educazione Siberiana sia un po’ il prodotto del nostro tempo alla stessa maniera in cui lo sono stati i versi dell’Iliade e dell’Odissea.

Lungi dall’essere considerate vicende reali, queste due opere monumentali venivano recitate e ascoltate in parte per il puro piacere della narrazione (di una potenza enorme, ipnotica e violenta, grazie all’uso dell’esametro: una metrica dotata di una purezza stilistica estrema, che dava alla narrazione quel ritmo lungo del respiro che ben si adattava alla recitazione, alla riflessione e alla meditazione, ma che, proprio per questa intima circolarità, offriva la possibilità di un distacco totale dall’analisi della forma a favore di una fruizione totale sul contenuto), ma anche – si diceva – quale testo didattico e di riflessione morale.

Le divinità dei poemi epici non sempre corrispondono alla nostra idea di Entità Soprannaturale: accanto a figure mitologiche di grande spessore morale, troviamo anche creature capricciose e vendicative, abituate ad ottenere tutto il richiesto senza porsi troppi problemi in fatto di etica e giustizia.

Allo stesso modo, non tutti i protagonisti (comprimari e no) dei poemi omerici sono cavalieri senza macchia e senza paura: ci si imbatte in animi malvagi, personaggi ambigui e bugiardi, assassini e mentitori di professione. E anche gli eroi veri sono Uomini a tutto tondo che sbagliano, soffrono, maturano e attraverso questo percorso di vita creano la propria strada e influenzano quella degli altri.

L’esempio offerto da questi uomini di valore (ricordiamo l’epiteto qualitativo che compete ad Odisseo: “colui che ha molto sofferto”, colui che ha molto sopportato: gli sbagli degli altri, le vendette umane e divine, ma anche le proprie debolezze interiori), ovverosia il rispetto che mostrano verso la propria terra, verso i propri vecchi, i progenitori e antenati, quello per le proprie donne, figli e famiglia, offre ai giovani un’autentica mimesi che travalica epoche e culture.
In questo senso i poemi omerici erano, per la gioventù, testi didattici e filosofici - oltre che, per altro, validi “manuali pratici” che insegnavano, in maniera semplice e tradizionale, le arti manuali delle armi, della pittura, della navigazione e della vita quotidiana.

Nessuno può contestare la violenza sanguinaria insita in Educazione Siberiana, o una visione a tratti parziale che tende, in certi punti, ad un velato tentativo di auto-giustificazione (tirando in causa assetti di geopolitica che meriterebbero un’analisi a parte). Occorre, crediamo, verificare il fine a cui tende tutto ciò e che travalica in parte il contenuto del testo.

Notevole l’idea della forma italiana del testo: è evidente l’operazione di editing (soprattutto per quanto riguarda forme complesse della lingua, quali consecutio e congiuntivi) che tuttavia non altera l’immediatezza di fondo e il trasparire di una visione semplice e imperfetta del vissuto quotidiano propria di un giovane poco più che adolescente. 

"Disturbo della quiete pubblica" - "Super Cannes", Richard Yates & G. J. Ballard

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Abbiamo accomunato Yates e Ballard perché ci interessava il connubio psichedelico alcool-droghe di sintesi. Eravamo curiosi di porre a confronto questo Yates cupo, segnato dal destino, ferito e disilluso dalla realtà - ma ancora ben radicato in essa - e uno degli ultimi Ballards, che, la realtà, la irride, la svirgola, la trasforma e la manipola fino a creare scenari di visoni metafisiche e surreali, in un delirio visionario di mondi da olocausto nucleare eppure, alla fine, così incredibilmente paralleli a quella realtà che, pareva, avesse abbandonato.
Curioso che due personalità eminenti della letteratura moderna, praticamente coetanei (1926 verso 1930) con molte esperienze simili a curriculum (vedi permanenza nell’esercito) siano arrivati a risultati analoghi utilizzando mezzi diametralmente opposti – ma c’è da dire che l’errore di lettura qui c’è: stiamo paragonando uno scritto degli anni 60 ad uno più giovane di circa 30 anni. Ce lo facciamo andare bene così, per il momento, e poi vedremo perché.
Per questo consiglio di lettura utilizziamo i "bullet points" perché vogliamo offrire soltanto qualche spunto di riflessione spot. A ciascuno poi, l’arte di rifletterci sopra in maniera articolata (e non strutturata, perché qui l’opzione non funziona, visto il gap temporale tra i due scritti).

- Porre a paragone John Wilder – Yates (JWy) e Paul Sinclair – Ballard (PSb). Riflettere sugli “stati di partenza”: affermazione sociale e professionale e successivo abbandono di una situazione di equilibrio, instabile e precario, ma pur sempre equilibrio, a favore di un’opzione totalmente destrutturata, totalmente avulsa dal contesto di partenza – sicurezza sociale, accettazione da parte della comunità, canoni prestabiliti. 
Definirne le motivazioni: per Jwy, desiderio di rivalsa, attitudine alla sfida, desiderio di emergere, aconvenzionalità rispetto alla realtà conosciuta, istinto (possiamo chiamarlo così) di sopravvivenza. Per PSb, passione amorosa, desiderio di compiacere, interesse verso nuove realtà alternative, una certa qual passività di animo e di sentimento.

- Alcool e droga di sintesi. L’utilizzo di sostanze psicotrope per sopravvivere a realtà in continuo mutamento ed evoluzione, da cui è impossibile sottrarsi e, viceversa, sopportare. Curioso che Yates avesse già identificato, agli albori della psicanalisi, il potenziale distruttivo di antidepressivi e ansiolitici che sostituiscono i superalcolici e le sigarette (a questo proposito, possiamo anche tornare alla nostra Oates, vedi “Sorella, mio unico amore”). 
Gli antidolorifici da cui PSb si trova dipendente, i derivati dell’eroina assunti dalla giovane moglie in carriera, e le bottiglie di gin scolate di nascosto da Jwy, tracannate in solitudine, in bettole mefitiche e luride, giusto pochi attimi prima di partecipare alla riunione degli AA, ben poche differenze hanno tra loro.

- Le realtà alternative, sottoinsiemi rotondi e tracciati di rosso, gli uni dentro agli altri: per PSb, il complesso di Eden-Olympia, un paradiso perduto che sa tanto di Dante Alighieri, con i suoi gironi e le sue bolge infernali, per quanto edulcorati e trasmutati dall’aria condizionata e dalla brillantezza delle superfici vetrificate. 
Per Jwy, il centro di igiene mentale, luogo infernale di malattia, sudiciume, violenza, disprezzo, pazzia.

- La pazzia lucida (e qui torniamo al matto che parla, vedi Revolutionary Road, o al ricercatore Robert Kerans compagno di avventura del colonnello Riggs nel Mondo Sommerso). In parte, Jwy perde il senno si direbbe quasi consapevolmente. La pazzia non assume i contorni, ahimè più consistenti, di un delirio reale e drammatico, inevitabile e devastante, ma viene per certi versi ricontestualizzata ad arte per assomigliare sempre più ad una quasi consapevole – e teatrale – uscita di scena. 
L’alienazione mentale (fomentata sempre più spesso da alcool o sostanze) risulta l’unico mezzo, di rivalsa istintiva e senziente, attraverso cui chiamarsi fuori da una realtà sempre più estranea e incompatibile con la propria esistenza interiore. 
Ballard invece, nei suoi tratti visionari, va ancora oltre. In una società in cui nulla è più lasciato al caso, all’improvvisazione e all’istinto naturale, la psicopatia CONSAPEVOLE e guidata è l’unica via di uscita per conservare una SUPPOSTA lucidità di fondo che aiuti a sopravvivere nella realtà del quotidiano e del necessario. 

Interessantissimo confronto tra le parti: Yates, nella sua essenza di autore letterario fedele ad un realismo puro, scarnificato e incontrovertibile, definisce la fuga come unica via di uscita da una vita ormai priva di qualsivoglia significato intrinseco. Ballard, libero invece da ogni sovrastruttura letteraria di questo genere, si abbandona a una riedizione fantascientifica totalmente nuova e di violento impatto psicologico: l’analisi della realtà di oggi, che non è più necessario abbandonare, ma che è sufficiente de-compattare e poi ri-comprendere; l’Uomo, attraverso strumenti nuovi, totalmente scevri da qualunque etica e qualsiasi morale, non è più costretto ad un esilio volontario (e in parte salvifico). 
L’Uomo di Ballard, nel nome di nuovi, fecondi ideali solipsistici, può vivere appieno la sua Nuova Era.

- Sembra stupido ma... l’arte cinematografica & LA PISCINA. Dare un occhio alle ambientazioni. 
E’ inutile, Ballard rimarrà per sempre affascinato dalle sue visioni perfettamente surreali e abbacinanti. Da qualsiasi parte lo si legge, coordinate che sempre ritornano e che fa piacere ritrovare: il sole violento e caldissimo che batte contro le pareti di vetro e acciaio di palazzi addormentati - o abbandonati; la luminosità del cielo che si riflette negli specchi d’acqua di piscine azzurre, immobili, su cui navigano moscerini minuscoli, dalle ali argentee. 
Da confrontare con la parentesi “cinematografica” di Jwy: una Los Angeles allucinata, chiarissima, persa nel caldo e nell’afa dell’estate; una città post nucleare popolata da attori squattrinati - prigionieri di appartamenti microscopici arredati a colori pastello e soffocati dai flebili effluvi provenienti da vetusti e mal funzionanti condizionatori d’aria – e da imprenditori senza scrupoli, volgari e reietti, confinati in  ville-con-piscina immerse nei verdi villaggi residenziali (SuperCannes docet) sulle alture holliwoodiane. Si confronti anche l’industria cinematografica a firma Yates con la descrizione puntuale e accurata del Festival del Cinema di Cannes alla Ballard-maniera. Risultati ... stupefacenti.