Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

venerdì 30 dicembre 2011

"La città di adamo", di Giorgio Nisini

More about La città di Adamo

- Con una particolare capacità narrativa che mira ad accomunare, attraverso un gioco sottile di metafore e sineddoche, il tutto all’oggetto, G Nisini catapulta fin da subito il lettore nel territorio del falso d’autore

- Il televisore Brionvega, che l’affascinante Ludovica sistema in soggiorno, è un falso storico: una riproduzione benfatta del fratello maggiore dell’epoca, curata nei particolari costosi del modernariato, ma sempre un falso,riconoscibile solo ad occhio esperto (e socialmente accettato e ricontestualizzato). Ed è proprio attraverso il televisore che Marcello Vinciguerra – in contemporanea al lettore – è catapultato nella realtà di un altro falso storico: quello della vita stessa del protagonista

Marcello, adolescente attempato, da diversi anni gioca a fare l’adulto, con risultati piuttosto soddisfacenti. Infanzia serena e senza troppi scossoni, tra buone scuole e una famiglia attenta, di ottima cultura; laurea acquisita fuoricorso, sine infamia sine laude, nozze con una donna del medesimo entourage, il giovane – senza patema alcuno per il futuro, già definito – al termine del percorso scolastico entra nella ditta del padre e lo affianca nel lavoro quotidiano. Ora, alla soglia dei quarant’anni, Marcello Vinciguerra abita le colline fertili delle Langhe, si è costruito una bella villa - che l’affascinante ed eclettica consorte Lulù, divenuta affermata commerciante di arredi di design, governa con amorevole cura (spostando di quando in quando un divano qui, una credenza là, casa di bambole) - guida una macchina potente, veste maglioni di cachemire e, non ultimo il fatto, conduce con più che discreto profitto – un po’ barcamenandosi, un po’ vivendo di rendita - la pregiata azienda ortofrutticola che ha ricevuto in eredità dal padre. E’ stimato tra i dipendenti e i collaboratori, non certo celebrato come lo era il padre, creatore ex novo di una delle più produttive aziende agricole del centro-Italia, ma è datore di lavoro rispettato, dotato di buona professionalità e attento spirito imprenditoriale

La vita di Marcello scorre prevedibile e concreta, senza particolari traumi o imprevisti, complice anche la mancanza di figli (che – informazione preziosissima che l’autore centellina fino allo stremo della curiosità del lettore – non sono stati procreati “per scelta”). La passività di Marcello si esemplifica anche nel rapporto erotico con Ludovica, di cui Marcello subisce le stravaganze, nell’inconscio tentativo di mantenere viva la passione sessuale che deve di necessità rimanere immutata nel suo vigore post-adolescenziale e nella sua solidità di status acquisito, al pari di tutto ciò che di materiale circonda i due coniugi. 
- Il cambiamento e la mutazione, se proprio occorre, debbono avvenire soltanto attraverso canali mediati e secondo schemi preventivati, creati ad arte dal protagonista del cambiamento stesso oppure, ove subìti, socialmente accettati (sia che si tratti di un nuovo oggetto di design appena acquistato ed introdotto in casa – che deve corrispondere perfettamente agli ultimi dettami del lusso e della moda - sia che si tratti di un nuovo ristorante, o di un nuovo fidanzato per l’amica single). 
- E’ il fascino degli oggetti, dettagli all’apparenza insignificanti che invece plasmano e modificano la percezione che noi abbiamo di noi stessi e di chi ci circonda. E’ il silenzio al ristorante d’élite, interrotto soltanto dal soffice brusio dei pochi avventori e dal tintinnio delle posate sul piatto. E’ la poltrona ergonomica sui cui la madre di Marcello ondeggia a gambe all’aria; è una fotografia sovraesposta, tagliata rozzamente e slightly out of focus. E’ il divano boa, oggetto feticcio delle fantasie sessuali di Ludovica, o le tele di De Chirico, che tanta parte hanno nella ricostruzione iconografica dell’immaginifico del quartiere Eurano

- La contaminazione giornalistica ci pare minima, per altro totalmente decontestualizzata dal momento che luoghi, fatti e nomi sono dichiaratamente frutto di un atto di puro estro e mera fantasia artistica. Non si tratta quindi di un’operazione né pedagogica, né di denuncia sociale (*). 
Prova evidente della letterarietà del testo, la tipica ambiguità romanzata del cattivo. “O’ Filosofo”è un camorrista di sanguinaria memoria; ma allo stesso tempo è uno studioso illuminato capace di profonda ironia letteraria, un architetto visionario, una personalità carismatica e affabulatrice. 
Ciò non significa che l’autore di fiction debba necessariamente prendere posizione contro l’impegno civile, ma soltanto che qui, in questo contesto, la camorra sia da intendersi come semplice pretesto, una delle decine di possibili rappresentazioni del reale a disposizione dell’autore, quale strumento di avvicinamento al lettore (e per attirare il lettore). Un escamotage

- Marcello è un autodidatta della ricerca. Si muove rozzamente tra interrogatori surreali, pedinamenti sconclusionati, sopralluoghi improbabili: una moderna telemachia, un viaggio nel dubbio e nel grigio di un’esistenza che si tramuta in uno solo colpo, grazie a (o a causa di) un unico fotogramma passato alla televisione durante un programma di attualità politica, da pragmatica, razionale, comprensibile, evidente, a confusa, insondabile, equivoca, ambigua, ambivalente, metafisica. Il viaggio del figlio alla ricerca del padre, quel figlio che diverrà uomo soltanto dopo aver compreso, ed imparato, ad essere, esattamente, figlio - e padre a sua volta

(*) stesso approccio, piccola nota a margine, che hanno utilizzato con successo almeno altri due autori del Sud Italia che abbiamo annoverato tra le nostre personali migliori letture dell’anno: B Agostini e F Battistella 

lunedì 19 dicembre 2011

"Bambino 44", di Tom R Smith


More about Bambino 44 Lettura di evasione, verrebbe da dire. E' che l'immagine è così vivida, di questo Daniel Craig un po' più sdrucito e un po' meno palestrato dell'originale, ma sempre affascinante, piegato dalle avversità (e che avversità) della vita, che - inutile - si sospira, a metà tra l'ammirazione e l'istinto, tutto femminile, della crocerossina perduta. Cioè, ti fai tutto il film: l'eroe, l'avventura, le avversità, l'immaginifico della contestualizzazione fantastica, il lieto fine.
Peccato che, se messa così, la cosa funzioni soltanto in minima (e misera) parte.
Giacché, dopo le prime 30 pagine di goduriosa illusione, si scopre che:

L’eroe non è eroe per niente, anzi. Leo Demidov (che poi alla fine, non siamo proprio così sicuri neanche sul suo nome di battesimo) è un tipo che per qualcosa come una quindicina di anni si è letteralmente bevuto - e sparato su per il naso – coscientemente e consapevolmente, ogni qualsiasi sostanza possibile, dalla metamfetamina ai jingle di partito: piccoli, innocui aiutini necessari e indispensabili per arrestare, torturare e massacrare senza sforzo e senza rimpianto una pletora di ignoti e anonimi “dissidenti” esterni ed interni al sistema (e i muscoli se li è fatti, deliberatamente, proprio a tal fine).

L’avventura non è poi così avventura, visto che si cita niente di meno che – il tutto rivisitato certamente in chiave letteraria e anacronistica, ma pur sempre “storia vera” – il “Mostro di Rostov”, psicopatico colpevole di aver ucciso, sventrato e divorato decine e decine di bambini/e e adolescenti sovietici, negli anni tra il 1978 e il 1990.

(Nota a margine, come non pensare a questo punto al nostro caro amico Hannibal Lecter, il vicino di casa che tutti desideriamo avere e da cui non pochi hanno avuto l’onore di essere invitati a cena. Clarice Starling chiusa in quella dannata cantina è così vicina da darci i brividi).

Già qui ci sarebbe di cui riflettere, visto che ci stiamo infilando – trasportati a nostra insaputa dalla sapienza dell’autore – nel complicato tunnel della contestualizzazione.
A dire la verità, il dubbio si era già insinuato in noi a partire dall’identificazione geografica, precisa, puntuale, all’inizio di ogni capitolo (CentoKm? Nord, sud? E che bisogno c’è di indicarlo?) ma via, siamo lettori ingenui, possiamo sorvolare, intrippati come siamo da tutto il finto-contestuale che ci assale quotidianamente in libreria.

Peccato che poi ad un certo punto si parli di Seconda Guerra Mondiale (uhm uhm, suona qualche campanello? No, ancora no) e poi di Grande Guerra Patriottica (niente?) e, alla fine, di un certo qual personaggio, tale Jozif Djugasvili, detto, orbene sì, Stalin. E qui se ne vanno a farsi benedire tutti d’un colpo gli altri due punti: avversità e contestualizzazione fantastica.

Perché il paesaggio lunare di gelo glaciale, estati torride, lande desolate e foreste impenetrabili non appartiene a un qualsiasi mondo di fantasia, creato ad arte e misura di romanzo apocalittico post-nucleare, ma a quella misteriosa, antica, nascosta eppur così vasta porzione di terra al di là dell’Europa che prende il nome di Repubblica Sovietica - sempre lì, anche oggi, a tre ore di volo da noi, modifica di status sociale a parte.
Povertà, miseria, fame, carestia, guerra e morte non sono spunti immaginari per una narrazione di pura evasione. Così come non lo sono le tipiche esperienze di urbanizzazione post-Second War: casermoni grigi più simili a carceri che ad abitazioni, strade buie, edifici appena costruiti e già in rovina, vapori mefitici che ammorbano l’aria, treni stipati di passeggeri. Per non parlare di milizia cittadina, polizia segreta, prigioni, camere di tortura, gulag.

Morale della storia: ci piacerebbe, ma spiace, niente compromessi. Né all’esterno, né, tantomeno, all’interno della narrazione.
Nello stesso modo in cui Leo Demidov si trova a dover necessariamente fare i conti con il sistema deviato, innaturale e immorale a cui per tanti anni ha prestato fede, nell’ottica di un’obbedienza cieca a assoluta, il lettore è costretto ad uscire, sdradicato a forza, dall’esperienza confortante della fiction letteraria per affrontare un testo che soltanto a prima vista è solo quello che sembra, ovvero un thriller di spessore, sostenuto da una trama compatta, densa di colpi di scena, scarna al punto giusto, quasi minimale, ma che nasconde in sé l’anima calda della testimonianza politica che necessita di uno schieramento, dell’evidenza dei fatti, del racconto popolare, della Storia. Orribile, atroce, ineluttabile. Naturalmente, lieto fine escluso.

(Nota conclusiva per il pubblico femminile: a fine cott(lett)ura, correggere con una leggerissima spolverata di invidia indiscutibilmente rivolta alla bella e intelligente protagonista, nonché moglie del sopraddetto Craig-surrogato. 
Come dire, oltre il danno la beffa. 
Già, per altro, s’ode in lontananza il commento a metà tra l’inacidito e il velatamente stupefatto dell’ homo sapiens di turno – inteso, proprio homo - eventualmente coinvolto nella lettura, che, all’ennesimo saggio ultrabdominal del protagonista, o di fronte a uno dei suoi più clamorosi coup de théâtre in pieno stile MacGaiveriano, risoluzione inattesa di una situazione di alto pathos drammatico, esclamò scocciato: ma che fiaba. E chiuse lì la questione, con un grugnito di atavica, neandertaliana memoria.

Touchèma è l’arte del romanzo, e non si può prescindere – e perché, se Hannibal Lecter e Clarice Starling avessero preso non le sembianze di Antony Hopkins e Jodie Foster, ma quelle di due meri sconosciuti un po’ flaccidi e scipiti, dite che ci sarebbero piaciuti così tanto come ci sono piaciuti? Ohnno, certo che no. Quindi, dello spettacolo, almeno per questa volta, facciamocene tutti una ragione. Ne vale la pena).

martedì 6 dicembre 2011

"La cavalcata dei morti", di Fred Vargas

More about La cavalcata dei morti A far da antitesi ad un mondo in cui, nel bene e nel male, ciò che vale pare essere spesso quel particolare tipo di brillante capacità inventiva che, tuttavia, capita che talvolta trascenda in parola da celebrare necessariamente (ebbene sì, anche via twitter) attraverso l’esternazione e la visibilità mediatica - a far da antitesi si diceva è il lento movimento silenzioso, adagio ma non troppo, del Commissario e della sua armata Brancaleone.
Ciurma che si desteggia, più reattiva che PRO-attiva, tra le avversità della vita a mano a mano che esse si presentano, non un momento prima, come dire a dire che lo smazzo preventivo è pressoché inutile di fronte alle avversità del destino, ma più spesso, forse, molti momenti dopo (ove il “dopo” è effetto, quasi sistematico, di cellulari dimenticati spenti, sveglie mai suonate, clamorosi colpi di testa emotivi, sbronze, abbioccamenti clandestini durante l'orario di lavoro e varie altre del genere medesimo).

E così, per stessa ammissione dell’autrice, ciò che sembra non è mai ciò che è, in un continuo gioco di specchi e di prospettive multiple. La squadra di Adamsberg è composta da “(…) uno affetto da ipersonnia che crolla addormentato sul più bello, uno zoologo specialista in pesci, di fiume soprattutto, una bulimica che scompare per fare scorta di cibo, un vecchio airone esperto di leggende, un mostro di cultura che non si schioda dal vino bianco, e via di seguito” (pag.83). Peggio di così, vien da dire, non si potrebbe. Eppure, alla fine ci si salva sempre – non è detto che le ammaccature non ci siano, per amor del cielo – ma ci si salva perché ognuno è in qualche modo artefice, con le sue, personali peculiarità, di quel pezzettino di destino che poi Adamsberg finisce, non si sa mai come, per incastrare a mo’ di tessera di puzzle.
Come quella antica favola secondo cui il serpente non sarà bravo a volare, ma striscerà meglio del coniglio, che invece darà il suo meglio nel salto e nella corsa ma che ben volentieri lascerà al passerotto il compito di cinguettare a squarciagola.

Adamsberg e Danglard – e di riflesso, Fred Vargas, Sibilla d'Oltralpe – tentano di restituirci un mondo che, nella sua “regionalità” peculiare, vuole sfuggire alla globalizzazione del presente, almeno per taluni aspetti più vicini all’identità dell’Uomo in senso lato.

Danglard è il custode della tradizione orale, della leggenda, della narrazione popolare che quasi mai diventa (vedi sopra alla voce “visibilità mediatica”) erudizione sterile e semplice celebrazione del superego. Danglard ci racconta – lievemente annebbiato dai fumi dell’alcool, che quasi sempre lo accompagnano, in una sorta di estasi bacchica perenne (sacrableu, vino bianco per altro) - di annedoti, leggende, memorie: a flusso continuo, producendo una quantità di notizie abnorme, evidentemente esagerata dall’autrice il cui intento precipuo è l’identificazione del personaggio attraverso l’iperbole e l’esemplificazione di un certo tipo di vissuto.

Adamsberg è, tra l'altro, l'uomo del piacere fisico che prima ancora di esplicarsi con il sesso (vedi in questo caso la bella Lina) si esprime nel cibo. Mai viene a mancare, contestualizzazione del testo e suo inserimento all'interno di una dimensione “regionale” territorialmente marcata, la citazione culinaria: qui abbiamo zuppa di carote e spezzatino alla panna (vitello e fagioli, con il profumo del fuoco di legna), calvados e zollette di zucchero, e per finire, in un connubio di gusto, tatto e olfatto, il kouglof con mandorle e mele.

Veyrenc per stavolta ci piace ricordarlo così – che ci volete fare, al cuor non si comanda, con buona pace di Danglard (è che c'è la storia dei capelli rossi, e il pericoloso sorriso da ragazza, quindi non stiamo a cantarcela sotto la doccia: il ragazzo, ormonalmente, disturba assai) - in piedi nell'erba alta, a tre metri da Adamsberg, seduto sotto al melo, intento a giocare a golf con delle piccole mele da sidro. La mattina è limpida, ancora umida di pioggia, il sole si infrange obliquo tra i rami. Chapeau.

Da dire, incredibile come Camille, ahinoi, non ci sia mancata quasi proprio per niente. E noi che pensavamo il contrario. Forse compensata dalla notevole presenza scenica di uno Zerk in splendida forma, quasi un Adamsberg ante litteram, un flashback su un giovane Jean-Baptiste con lo sguardo sempre per aria, l’occhio acuto fisso su dettagli quasi insignificanti (quasi), magliette e calzoni di misura sempre troppo grande, infilati su alla bell’e meglio e uno spirito di adattamento da far invidia a Reinhold Messner. 
Che dire, noi facciamo il tifo per lui.

venerdì 11 novembre 2011

"Red Chapel", di Mike Resnick

More about Red ChapelGrazie a 40K abbiamo scoperto Mike Resnick. Alla buon’ora, direte voi. Ebbene sì, vergogna assoluta, ma tant’è. Come a dire che le defaillances sono proprie anche di chi ce la mette tutta. Ora, temiamo che il tipo in questione ci crei dipendenza, e la cosa sarebbe grave visto il numero di pubblicazioni ( "I've published tens of novels and well over over two hundred short stories" dice lui nella sua biografia. Annamobbene).

La questione è che disgraziatamente la produzione dell’autore contiene in sé quella trasversalità di utilizzo che rende la faccenda oltremodo spinosa.

E' sera, fa freddo fuori, i vetri sono pieni di brina, il giardino condominiale è una pista di ghiaccio per pattinatori professionisti, i bambini dormono ed è pure Halloween? Ok, non è che proprio proprio amiamo Jack O' Lantern alla follia, ma, via, uno scheletrino non ce lo leva nessuno.


Così, valà, mi leggo di Jack The Ripper, che tanto sono solo 37 pagine, giusto il momento a cavallo della mezzanotte, chè domani, all’alba, sarà già troppo tardi e fuori luogo.

E supponiamo – ci proveremo, poi vi daremo notizie – che "Keepsakes" 2011 letto al momento giusto, potrebbe dare risultati eccezionali.

Insomma, il pensiero allo specchio: rifletto sul mood, e POI scelgo il libro (una sorta di “cherrypicking” de no' artri), perché DI SICURO, tra tutto quello che questo signore all’apparenza modesto s'è inventato, qualcosa di buono c’è.
Gli amici di Zazie mi sa che ci andrebbero a nozze e il lettore rischia, vedi sopra, la dipendenza.

Ma siì, ma siì (segue gesto vago con la mano destra, di polso, rotatorio da sotto in su, della serie go ahead, via, lascia correre, panta rei)... perché c’è il fascino della short story, quella cosa che vedi e non vedi, una finestra aperta su un mondo già cominciato, e che poi qualcun altro chiude così, all’improvviso, e per una volta – finalmente – ti senti trascinato via, in balìa dello scrittore che, con il lettore, fa quel che vuole lui. E’ l’arte del togliere al posto del mettere, caratteristica principe del racconto ben riuscito. 
Un so-ma-non-so e e non posso sapere, intuizioni di particolari minimi eppure pregnanti, descrizioni accennate ma vivide e significative, dialoghi serrati perché vincolati dall’economia della tipologia narrativa.

Perché delle volte è molto più semplice puntare al malloppone in tre volumi piuttosto che a un minimo sindacabile composto da 37 pagine fronte e retro, come a dire, eh, mo' te voglio, a rifletterci sopra.

venerdì 28 ottobre 2011

"Re di bastoni, in piedi", di Francesca Battistella

More about Re di bastoni, in piedi L’italiano regionale è il paese dei balocchi. Abracadabra.

L’uso regionale delle forme, grammaticali e sintattiche, porta all’esemplificazione di una varietà d’uso che pochi raffronti ha con la letteratura di altri Paesi europei.
Si parla sia di strutture grammaticali intrinseche alla locuzione, e quindi spesso neppure così mediate dalla consapevolezza metodologica (struttura paratattica, utlizzo della relativa), sia di lessico a bassa distanza strutturale con le forme più piene del dialetto, che nell’italiano regionale vengono smussate della loro crudezza espositiva - attraverso il confronto quotidiano con la lingua italiana - mantenendo tuttavia il significato pregnante dell’espressione dialettale.

L’italiano regionale è la lingua dei profumi e dei sapori. E’ la lingua della nostra arte culinaria, fatta di ingredienti e materie che tutto il mondo ci invidia. Verdure, frutta, farine, pane, olio, formaggi, introdotti con arte subito al principio del racconto, così da permeare poi - come il profumo del ragù della domenica preparato da mamma, che senti già dal letto, quando ti svegli - tutte le pagine della narrazione.

“Fritto misto all’italiana” (zucchine tagliate finissime, fiori delle medesime, pezzettini di ricotta secca, bocconcini di mozzarella – pastella, uovo, farina e pan grattato – pag 50)
“Verso le due sedettero a pranzo (…). (…) servì la minestra maritata e le salsicce con i friarielli, belli amari e in stagione” (pag 85)
“(…) servì uno splendido babà al rum fatto con le sue mani e mise una bottiglia di limoncello ghiacciata al centro della tavola” (pag 137)
“(…) poi arrivarono le tracchiolelle al sugo spesso e le scarole all’agro” (pag 204)

Ma è anche la lingua della della festa rurale, della tradizione del racconto orale, della leggenda e della superstizione religiosa, di cui le carte sono l’emblema.
“(…) girava voce che la proprietaria, una certa signora Cecere, fosse molto brava a fare le carte. Subito le donne di famiglia si erano agitate (…). (…) sarà una vecchia megera – aveva commentato girando lo sguardo all’intorno – già me li immagino tutti e due in quella specie di antro della Sibilla. E poi, agitando le mani nell’aria: abracadabra! aveva esclamato, suscitando ilarità” (pag 193-194)

E’ su questo terreno fertile che nasce e si sviluppa la vicenda di Maria Consiglia Cecere, che ha il merito della linearità del giallo ben congeniato e della rappresentazione corale.
Maricò, la protagonista, si muove in un teatro tutto suo, un’umanità varia composta di una vecchia zia secca, incanutita e saggia (e qualche curioso scheletro nell’armadio), tre pensionanti, zitelle e arrapate (jeans aderenti cacciati su a forza, a coprire girocoscia da salumeria, vestiti neri di pizzo e crinoline al sapor di naftalina), un affittuario trapiantato dal lontano Nord (per la serie, al Sud piangi due volte, quando arrivi e quando parti), tutto borbottii, Corriere della Sera e vocali aperte; la sorella Fausta, regina indiscussa della scenata napoletana, col marito Gennaro e i quattro figli maschi, Cavalieri dell’Apocalisse.
E poi, prinicipi caduti in disgrazia, uomini di fatica, portieri, cuoche, fantesche, in una girandola senza capo né coda di voci, colori, profumi, pietanze. Per non dimenticare tutti coloro che non ci sono più ma che in qualche modo vivono ancora con noi: don Cecè e i suoi quaderni sgualciti e forieri di sventura; donna Serena, passata a miglior vita dopo lunga malattia, che ritroviamo, spirito gentile e delicato, nel blu ceramica delle tazzine del caffè e nella cotone inamidato, oramai un po’ liso ai bordi, delle salviette da bagno; e nelle visioni notturne di Maria Consiglia.

Non può mancare poi il Bello che Non Balla, lui, il poliziotto senza macchia e senza paura, il figurino che così tanto, che dite?, somiglia a Rodolfo Valentino.
E non può mancare nemmeno, come in tutti i gialli che si rispettino, il vero Cattivo

Perché ci sono cattivi di molte fogge e misure: c’è il tirapiedi del tirapiedi, sempre pronto al voltafaccia, viscido e grassoccio, la faccia pingue e il colorito giallastro, che tanto parla ma nulla stringe. C’è il furbetto azzimato, il politico corrotto, l’immobiliarista senza scrupoli.
E, alla fine, c’è pure quello di cui devi avere, davvero, paura. E’ il male nella sua accezione più pura: ambiguità, buio, ombra, freddo. Assassinio, violenza, sangue, tortura, morte.
Il Male pefetto crogiola nella sua malvagità assoluta vagando nella penombra di stanze che profumano di legno e mobilia di pregio. Avvolto in caldi completi di antica e rinomata tradizione sartoriale, cena con pietanze sofisticate, degne della migliore arte culinaria regionale.
Si circonda, per convenienza, dei peggiori malavitosi, a sue volte vittime sacrificali della sua cupidigia, lussuria, lascivia.
E di scheletro nell’armadio, quel Male lì, ne ha uno vero, altro che i colpi di testa amoroso-adolescenziali di zia Concetta; è uno scheletrino minuscolo, di bambino, che riposa laggiù, in cantina, murato nell’umida muffa del cemento e del laterizio.

“Re di Bastoni, in piedi” è una di quelle storie da raccontare ai bambini, alla fine di un lungo pranzo domenicale, quando fuori comincia a far buio; sul tavolo, bottiglie di vino dolce finite per metà, biscotti, zucchero, briciole e tovaglioli ripiegati alla meglio. Dal tinello, il volume basso del televisore, sintonizzato sulle partite di serie A.
Perché c’è tutto: la protagonista, l’eroe, il lupo cattivo, l’orrore della morte, la speranza. Ma c’è anche la verità del reale: un’Italia bella e sofferente; viva e concreta, in perenne mutamento, come la sua lingua. Magia.

NB: per approfondimenti rimandiamo i lettori che hanno avuto la pazienza di seguirci fino a qui all’Iliade Napoletana, che tanto ci ha appassiona (a breve, arriverà qualche nota sul terzo, conclusivo volume). A testimoniare la vitalità, e la compresenza di tematiche linguistiche e di soggetto, che caratterizzano tanta parte della letteratura italiana di oggi. 

domenica 9 ottobre 2011

"Leielui", di Andrea De Carlo

More about Leielui Ovvero, appunti sparsi per una lettura da geek.
  • E’ che con De Carlo è una battaglia persa in partenza: te ne devi fare una ragione, sperando che ti prenda bene al primo colpo. Se no, so’ cavoli.
Dai primi capoversi puoi decidere che te’ deve pijià er trip della lettura veloce e continua: ti pare cosa buona&giusta, visti i titoli, lo spazio temporale ristretto in cui si svolge l’azione, il periodare contrappuntistico che hai intravisto tra gli incipit, la fruizione del testo; tutte quelle cose lì.
Però poi succede che a metà strada il testo rallenta, interrotto da intere sequenze dialogo-dilogo. Così a mano a mano ti accorgi, piccolo brivido e sorriso ebete alla Vispa Teresa, che qualcosa non torna.
E’ che Sei andato troppo veloce. Sicché, clamorosamente, ti sei perso dei pezzi; no peggio, la trama è ancora lì bella strutturata, non è quello il problema. Il problema sta in tutte quelle robe decarliane, sensazioni, ricordi, immagini, blabla, che non hai proprio raccolto.
Solo che hai voglia a tornare indietro adesso, visto che De Carlo è uno di quelli one-way: o te lo leggi bene la prima volta, o via, finito, fumato per sempre, the end e tanti saluti all’effetto sorpresa (sempre che di effetto sorpresa si voglia parlare, su un De Carlo diciamo, ma ne discuteremo più avanti). Così allora, memore della sòla di cui sopra che ti sei beccato, diciamo, con la lettura di Durante, stavolta ti armi di impegno convinto; maniche arrotolate, occhiali e piglio da duro, sfoderi una pazienza da letterato che neanche su un incunabolo del ‘500 e ti metti lì, a conservare le parole, a centellinarle con dovizia, a vivisezionarle, roba che alla Temperance “Bones” je fai un baffo. Lettura lenta, scrupolosa, frazionata, accurata, da filologo incallito e, diciamocelo, pure un po’ geek. Mai avessi scelto strada peggiore. Arrivi ai dialoghi impreparato, in carenza di ossigeno, e quelli ti si rovesciano addosso troppo veloci, tutto d’un fiato, creando quell’effetto-sceneggiatura del “dice / non dice” che ti sfalsa la comprensione del testo e ti fa gridare allo scandalo. Sacrableu! E quindi? E quindi niente.

Il perché di questa digressione/riflessione.
Perché significa porre in qualche modo le premesse per una lettura critica che nel caso di De Carlo, a parer nostro s’intende, non può dirsi tale se non ricondotta all’estrema analisi del testo, del linguaggio e delle modalità di lettura. Perché tanta parte del “meraviglioso” o dell’ “orribile” con cui anche sul web ci si dichiara pro o contro l’ultima fatica decarliana è dovuta, a nostro avviso, proprio alle modalità di fruizione del testo. E’ facile scivolare sul De Carlo, insomma, basta poco perché si sta sempre appesi a un filo – analisi del testo a far da riflesso puro, vivido, evidente, al contenuto.
  • Detto questo, arriviamo a un breve appunto sulla presunta “originalità” del testo su cui tanto si dibatte. Il personaggio maschile di ADC difficilmente potrebbe essere “originale” in senso stretto. Questo perché De Carlo dipinge il suo tempo e ciò che, nel bene e nel male, lo rappresenta. E così ci ritroviamo tra le mani il classico quarantenne belloccio all’apparenza inconcludente, svogliato, mal assortito, dimentico delle responsabilità della vita adulta - una vaga aria presuntuoso/arrogante che salta al naso. Dall’altra, tutta la serie di figurette belle in fila, soldatini della modernità: Stefano, lui, il Sicuro, il Mai Indeciso, l’Uomo che Tutto Sa, dopobarba di marca e boxer inamidati. Peccato che sia solo scena, ma fa niente. E, detto tra noi, neppure Claire, e l’armata brancaleone delle “colleghe” comprimarie, ci fanno una bella figura. Lavoro sì, lavoro no, figli si, figli no, matrimonio sì, matrimonio no… (aho’, ‘a Ccchiara, datte ‘na mossa che stamo a fa’ notte) . Ma così è. Sia nel libro, sia ogni mattina in metropolitana.
  • Un ultima nota. La Milano di De Carlo. C’è che è sempre bella, anche nella sua bruttezza cementifera. E’ bella nel sole torrido e irrespirabile di agosto, è bella a Novembre sotto la pioggia, è bella quando nevica, è bella, di manzoniana memoria, quando il cielo è blu. E questo De Carlo secondo noi lo sa, se no non ci prenderebbe così tanto impegno nel descriverla. La liquiderebbe in due parole, via, nel cassetto, dimenticata, come tutte le cose non-interessanti. E’ che Milano ti fa fare quello che vuole lei (come De Carlo con la lettura).
Conclusione di questo post inconcludente. L’uomo ondeggia. Di qui, di là; tra paure, improvvise consapevolezze, indecisioni, timori, incertezze, città nuove in cui ricominciare, luoghi del passato da ricordare, da dimenticare, da ritrovare; alla costante ricerca di una chiave di lettura per la realtà che lo circonda (lettura veloce, lenta, frazionata, continua… istintiva, mediata… chi lo sa). D’altra parte, questo esperimento di metatesto l’ha fatto pure Viola Di Grado, no? Con tutte le differenze del caso, ovviamente. 
Via, alla fine consentiteci una citazione da classicisti – quel gran furbone di Seneca mica ci era andato tanto lontano, a rifletterci sopra.

venerdì 16 settembre 2011

"Il vino della solitudine", di Irène Némirovsky

More about Il vino della solitudineE’ che leggi l’Irene, poi guardi i tuoi figli e le domande si sprecano.
Non ti sembra possibile che in Helene, una bambina così minuta, uccellino dall’aria smarrita tra chiffon e percalle inamidato, alberghi una creatura tanto violenta nell’odio e nell’ira, unghiette limate lunghe e guance morbide congestionate dal risentimento. Ti prende alla gola la paura di aver sbagliato qualcosa (sicuro, che hai sbagliato qualcosa), una sensazione di colpa e vergogna nei riguardi di un futuro incerto (chissà cosa sarà di loro | mi ameranno ancora | riuscirò ad amarli ancora), malmesso, inconfutabile.

Questa Irene ci ha ricordato da vicino un’altra saga familiare, quella raccontata da Rosetta Loy nel suo “Cioccolata da Hanselmann”. Le stesse bambine curate nell’educazione e nel vestito, lingue straniere mandate a memoria alla perfezione, istitutrici private, tate e badanti; maglioni di lana pesante, neve, paesaggi lunari e grandi case abbandonate dalla guerra e dal destino, tra ricchezze e sentimenti nascosti, perduti, sperperati.
Ma non solo.
Helene, con l’innocenza crudele tipica di certe infanzie negate e l’ingenuità propria dei bambini sperduti e MAL-educati, distrugge in un sol colpo e senza quasi rendersene conto (via, uno schiocco di dita) la vita di un’intera famiglia. Al pari dell’Antoinette protagonista de “Il ballo”, che non per nulla è un’altra delle più autobiografiche opere dell’Irene.
Le due ragazze, con un gesto banale, forse neppure così premeditato, sovvertono il destino di due famiglie, decretandone la rovina: Antoinette, in un moto di stizza per essere stata abbandonata non solo dalla madre, ma anche dalla bambinaia, getta nel fiume il pacchetto degli inviti al ballo, dando il via ad una serie di reazioni a catena tanto inarrestabili quanto irrimediabili.
Helene, confidando appieno nella sua fresca, adoloscenziale bellezza, per ripicca sottrae il giovane amante alla madre Bella (sic!), che per così tanti anni ha ignorato - con dovizia di impegno e gran profusione di energie - le responsabilità genitoriali.

Trasformandosi da bambina goffa e indesiderata a perfetta femme fatale secondo la più classica delle iconografie Belle Epoque, Helene in pieno delirio di onnipotenza distrugge oltre che la psiche di sua madre, già fragile di suo, anche tutta una serie di delicatissimi, sotterranei equilibri familiari (“lei, lui, l’altro”) che a lei, bambina sofferente e dimenticata (Chi vuoi che si curi dei bambini, Helene – le dice un giorno Max, l’amante della madre), neppure erano evidenti.
Antoinette, gettando i cartoncini degli inviti nel fiume disgrega pezzo per pezzo quello status sociale così faticosamente costruito dalla sua famiglia: ricordate, la madre di Antoinette, popolana di bassa lega, riscattatasi con il matrimonio, alla ricerca dell’affermazione sociale?

Ci troviamo di fronte ad una delle opere dell’Irene ancora macchiate dall’idea forte del melodramma sentimentale. Bella è caricatura di se stessa, trucco pesante, amori incondizionati, ricchezze estreme e altrettante, repentine, cadute. Gli uomini sono creature di sfondo, cupe ed enigmatiche.
Il padre di Helene è l’uomo d’affari per antonomasia; brucia di passione (un David Golder appena abbozzato) più che per il denaro in sé, per il momento del rischio, dell’acquisto, della perdita; tormento ed ebbrezza per il gioco d’azzardo, per l’imprevisto, per la vita nomade del viaggiatore e dell’esule. Disprezzo per le belle cose, per la pace dell’animo, per la famiglia tradizionale, per la vita tranquilla.
Max, il giovane amante di Belle, incarna all’opposto la figura del giovane aristocratico ricco e flemmatico. Poca ambizione, giornate lunghe da occupare con gite in macchina, donne, feste e conversazioni infinite, musica e balli, tormenti amorosi.

L’Irene, con gli anni a venire, affinerà la tecnica modellando personaggi sempre più complessi, che riuscirà a liberare dai vincoli del topos narrativo donando loro mille sfaccettature grazie alle quali sarà in grado di esplicitare appieno la completezza del reale.
Qualcosa però c’è, presente e vivo tra le pieghe di una scrittura giovane ma corposa e curata; un qualcosa che già spiega, in parte se non del tutto, la fiducia incrollabile che Irene Nemirovsky ripone nella risoluzione pacifica del conflitto bellico e della questione ebraica: se Irene Nemirovsky nelle sue opere affronta le luci, e soprattutto le ombre, delle esistenze di ogni suo singolo personaggio - comprese quelle di una se stessa bambina – comprendendone le sorti alla luce di una pietas fortissima, tutta latina, come può non assolvere anche un supremo dittatore, nella speranza, mai sopita finanche nel momento dell'esito finale, di una improbabile, ma pur possibile, redenzione? 

sabato 3 settembre 2011

"Nel bosco", di Tana French

More about Nel bosco More about La somiglianza More about I luoghi infedeli In vacanza abbiamo scoperto Tana French. Che beh, non ce ne vogliate ma ha preso un po’ (non TUTTO, ché al cuor non si comanda) di quel posto che era riservato a Patricia Cornwell prima che ci si perdesse sul serio - Kay Scarpetta nell’asetticità banale di una narrazione in terza persona e noi tra le questioni sentimentali Benton/Lucy/Marino che Beautiful in confronto è solo l’apoteosi di una cotta liceale lei, lui, l’altra. Anyway. 


Nulla da segnalare, se non godersi lo spettacolo senza troppe paranoie. Atmosfere da brivido, profumo di sigaretta, cappotti di lana umidi di pioggia, mistero fitto, poliziotti buoni e poliziotti cattivi, delinquenti, assassini e quell’aria tutta dublinese che solo a descriverla, se non sei bravo, ne perdi per lo meno la metà. E soprattutto, l’Essere Umano. Dopo tanta extracorporeità da fenomeno paranormale (vampiri, licantropi, angeli e affini), finalmente gli Uomini. Soli, nell’essenza inalienabile di corpo e mente: belli, brutti, giovani, vecchi. Sposati, single, con figli, senza figli. Buoni, altruisti, empatici, egoisti, cattivi, assassini, fuori di testa. Eppure, sempre uomini, nella quotidianità di un confronto, impari, con le gioie, ma spesso con i drammi, dell’esistenza.


mercoledì 3 agosto 2011

"Cold Spring Harbor", di Richard Yates

More about Cold Spring Harbor “Casomai non ve ne foste accorti, tutti i miei libri parlano di una persona solitaria che cerca un modo per entrare in contatto con gli altri. E’ un po’ l’opposto del Sogno Americano: diventare tanto ricco da poterti tirare fuori dalla marmaglia, da tutta quella gente in autostrada, o, peggio, sull’autobus. No, il sogno è una grande casa, isolata in capo al mondo. Un attico, come quello di Howard Huges. Un castello in cima a una montagna, come quello di William Randolph Hearst. Un qualche nido isolato dove invitare solo la marmaglia che ti piace. Un ambiente controllabile, lontano dal conflitto e dal dolore. Dove sei tu a decidere. Che sia un ranch nel Montana o un appartamento in un seminterrato, con diecimila DVD e accesso a Internet a banda larga, non c’è eccezione: arriviamo lì, e ci ritroviamo soli. Isolati”.
Chuck Palahniuk, LA SCIMMIA PENSA, LA SCIMMIA FA, Ame 2011, pag. 9

L’ultimo Yates è buio e profondo; eppure, nonostante ciò, porta con sé tanta rabbia e tanta energia da lasciare perplessi. Riflessioni in ordine sparso.
  • Cold Spring Harbor è una polveriera di sentimenti inesplosi, malgrado l’aria tranquilla di sobborgo urbano, villette a schiera (lusso | medio lusso | popolare), drogherie, pub e strada statale. Niente di nuovo se non la provincia americana, con il suo sogno di emancipazione e ricchezza posticcia, in the middle of nowhere; la reclusione autoinflitta del cittadino medio in fuga dal caos della metropoli comprende, tra i vari optionals, abitazioni dall’odor di muffa, stanze dal soffitto basso separate da tramezzi di legno scadente, infissi scheggiati, tendine in cotone rosa pallido e smunto a difesa di una privacy inconcludente, vicini pettegoli e maligni. Abitazioni inframmezzate ai drive-in, lunghi edifici squadrati, insegne al neon, buio tra separè luridi e operai ubriachi. [E c’è qualcuno che ha imparato così bene la lezione di Yates, non tovate? (*)].

  • Per la serie “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”, e secondo l’assioma - Yates per cui “se non parli di famiglia di cos’altro parli”, i parenti-serpenti non mancano mai. Si parte da Evan Shepard, un James Dean de’ no’ artri, brutta copia dell’originale, quasi un Fonzie ante litteram depredato di ciuffo, senso dell’umorismo e happy days, bello da paura ma un po’ lento di comprendonio, che si innamora, giovanissimo, dell’ “impertinente” Mary, con cui concepisce una figlia e convola a giuste nozze riparatrici, a cui segue un divorzio altrettanto rapido. Evan, in viaggio con il padre, il “capitano” Shepard, brav’uomo, distinto, che da anni ha riunciato alla carriera militare e si è ritirato in pensione per accudire Grace, la moglie caduta vittima di gravi crisi depressive e alcolismo, per caso (che non è fortuito) incontra Rachel Drake, giovane ragazza bella e fragile, a metà strada tra l’emancipazione femminile incipiente e l’adeguamento, richiesto di necessità, al ruolo, socialmente codificato, di moglie e madre. Rachel introduce Evan nel fantastico ed emozionante mondo dei Drake: la madre, Gloria, divorziata (abbandonata dal marito), sempre sull’orlo di una crisi di nervi, dipendente da tabacco e alcool, regina del sopra le righe e del melodramma esistenziale, e Phil, fratello di Rachel, alle prese con un’adolescenza standard, né più bella né più brutta delle altre, e come ovvio ormonalmente ribelle.

  • Sarebbe facile stare lì a raccontarcela e divertirci a indicar col dito il buono e il cattivo. Rachel da una parte, Evan dall’altra (bastardo adultero), Gloria relegata a bruciare tra le fiamme della Geenna (girone infernale “Le Suocere Velenose”); e il povero “capitano” Shepard? Via, lo mettiamo tra i puri di cuore. Solo che in tutta questa kermesse abbiamo dimenticato un piccolo particolare: il punto di vista interno multiplo, che crea doppie, se non triple, letture di uno stesso avvenimento, che viene intepretato da più personaggi contemporaneamente. Così tutto si mescola: Evan non è soltanto un ragazzotto poco incline alle responsabilità ma un giovane dal cuore un po’ indurito dai travagli famigliari, alla continua, costante ricerca di miglioramento (si veda il desiderio di affermazione sul lavoro, anche grazie ad un’ipotetico diploma di laurea), vittima di un’educazione sbilanciata, perché solo paterna, forse troppo convenzionale, rigida, “militaresca”, che ha dato troppo peso non a quel che è ma a quel che la società vorrebbe che fosse. Rachel è giovane e promettente ma anche instabile e poco propensa all’analisi e alla comprensione: si veda il rapporto con il fratello Phil, che, malgrado l’età del ragazzo, non evolve in un paritario confronto tra giovani adulti, ma involve anzi, perché implode su se stesso sbilanciandosi via via o da una parte o dall’altra, in equilibrio instabile e condiviso tra una sorella maggiore eccessivamente compresa nel ruolo della “mammina premurosa” e un fratello adeolscente incapace di svincolarsi da quello del “piccolino di famiglia”. E via di seguito, passando da Gloria a Grace, con il “capitano” Shepard sempre in mezzo a far da parafulmine tra l’una e l’altra (e per altro non esente da colpe: prima fra tutte, l’aver trascinato per anni la moglie da una base miliare all’altra – instabilità di luoghi e affetti che forse, prima causa tra tutte, ha acuito, se non generato direttamente, le psicosi della povera Grace).

  • Cold Spring Harbor è il luogo delle promesse mancate, il luogo in cui l’uomo cessa di esistere come tale, sfibrato dallo sforzo e dalla fatica della ricerca. Un esempio su tutti, la guerra, o meglio il suo fantasma. Evan vorrebbe arruolarsi ma non può, a causa di un problema fisico, e cerca riscatto nello studio, temendo il momento in cui i reduci di guerra torneranno a casa, celebrati difensori della democrazia e della libertà. Shepard Senior nel corso della sua carriera militare, vuoi per scarse capacità vuoi a causa dei problemi di Grace, ha seguito il destino del nostro Tenente Drogo, alla ricerca di quei Tartari che non sono arrivati mai. Phil guarda con ammirazione il collega di lavoro, sguattero in un fast food di basso rango, che di punto in bianco assurge a rango di eroe patrio e vede finalmente riconosciuto il proprio valore, osannato dal pubblico in delirio e lacrime, alla vigilia della sua partenza per il fronte (e col senno di poi, chissà se sia mai tornato). E poi le donne: Rachel, da giovane, carina e promettente ragazza di città, si trasforma in una moglie un po’ sovrappeso, alienata dalla vita di famiglia e risucchiata nel gorgo di un matrimonio convenzionale e spento. Mary, che dopo un errore di gioventù, ricomincia a “studiare sodo” e forse ce la fa pure, ad emergere dalla palude, ma per contro, quale obolo, perde ciò che i giovani americani hanno sempre perso nel corso delle loro peregrinazioni lavorative: famiglia e affetti, sfilacciati tra figli dati in affido ai nonni, matrimoni plurimi, storielle sgangherate, bisettimanali o mensili, con uomini già impegnati.
Ritornando all’incipit della nostra questione, viene spontaneo domandarsi il perché, di tutto questo accanimento terapeutico. Se tutto è dato per perso, perché spenderci tanto tempo? Ma perché alla fine, ma proprio alla fine, Yates si dimostra per quello che è. Altro che cinico materialista. Vittima sì, ma di un inguaribile ottimismo. La SPERANZA, ecco cos’è che alimenta gli sforzi sovrumani di ogni personaggio di Cold Spring Harbor. Non sogni di gloria, per carità, ma la speranza del vivere quotidiano: quel vivere “un po’ meglio” che comprende un diploma di scuola superiore, un giorno senza alcool, le comodità moderne della lavatrice e della casa con un fazzoletto di giardino intorno; la condivisione della vita con gli affetti più cari, la salute, il riconoscimento sociale e professionale.

Phil prende defintivamente congedo da Cold Spring Harbor, e lo fa in un modo che ha assieme del poetico e del tragico. Prende congedo metaforicamente dalla parte più buia di se stesso e di Cold Spring Harbor: un attimo di inimità rubata, lo sguardo attraverso la tendina di cotone gualcito, falso simulacro di intimità familiare, che Phil, con coraggio, si fa forza a fissare per bene negli occhi.
Il ragazzo, dopo un’estate che porta con sé il profumo del romanzo di formazione, raccoglie armi e bagagli e parte per affrontare un altro anno di scuola. E’ bella, nella sua struggente malinconia, l’immagine del padre di Phil che, una volta affrrontata la fatica dell’acquisto dei vestiti (economici, altro che giacche di tweed) per la scuola, abbandona il ragazzo in un bar, così su due piedi, e Phil è costretto a correre, confidando solo su se stesso, per raggiungere la stazione e arrivare al treno.

E’ il giovane Phil, un altro ragazzo che “diventerà uomo”, come il piccolo tra le braccia di Rachel, ad avere racchiuso in sé il seme della giovinezza e del riscatto. Un seme piccolo, minuscolo, che Yates in qualche modo consegna anche, e soprattutto, ai suoi lettori.

(*) Nota a margine per la questione dei “virgolettati”. Ritorniamo sempre a JC Oates e al suo linguaggio in prestito, che diventa importantissimo strumento di metatesto (i piccoli che scimmiottano i grandi, cercando di utilizzare le stesse forme lessicali, e i grandi che imitano radio, televisione, cinema e carta stampata). Chapeau.  

Testo commissionato dall’associazione culturale di una piccola biblioteca di provincia quale base per un reading pubblico, estivo, in località turistica.

giovedì 21 luglio 2011

"La centrale", di Elisabeth Filhol

More about La centrale La Francia è vicina, vicinissima, si può toccare con un dito. Venti che calano da Nord-Est, superano le Alpi e arrivano fino a noi. Quello stile asciutto, evocativo, vedo non vedo, fatto di sensazioni e pensieri, più che di azioni.

Impensabile l’idea di affrontare il testo come un’opera compiuta, conclusa, fatta e finita. Perché gli interinali del reattore, un inizio e una fine non ce l’hanno: se ne vanno da una parte all’altra, senza continuità alcuna, né di ruolo, né di tempo. “La centrale” è un buchino di serratura, e questo ci deve bastare. Un qualcosa da cui sbirciare, spiraglio di una porta mal chiusa da un bambino distratto. Un film già iniziato e il buio in sala. 
La vita di Yann, per il lettore, non ha né un inizio né una fine. Dobbiamo accontentarci di episodi accennati, di storie a metà, di persone che incontriamo e che poi, così quasi per caso, vengono abbandonate, perse, e poi magari ripescate dall’oblio del ricordo e del tempo. Persone di cui non sappiamo nulla di più di quello di cui l’autrice ha voluto metterci a parte, pace all’anima nostra.

E che ci possiamo aspettare, dal lavoratore interinale del Moloch-centrale che tutto inghiotte, fagocita, tritura e poi sputa. La “carne da atomo” non ha residenza alcuna, visto che i luoghi di domicilio sono quelli votati, per definizione stessa, alla precarietà dell’esistenza: campeggi, roulottes, case prefabbricate, container, motel, finanche sedili posteriori delle auto. I coinquilini poi sono individui sconosciuti, che oggi ci sono, e condividono con noi schiscetta, chiacchiere, silenzi e radioattività, e domani non ci sono più, inghiottiti dalla strada interstatale lunga e dritta verso una nuova (e sempre vecchia, come già vissuta) opportunità professionale, o dal Moloch. E’ la condizione del lavoratore moderno e precario, aggravata dalla particolare situazione carica di rischi, sottintesi e inquietudine. Non troppo diversa, per la verità, dall’inquietudine che attanagliava la mente (e i polmoni) del bis-prozio “Gigetto” (all’anagrafe, Pierluigi Maria), emigrato in Germania, lavoratore stagionale nelle miniere di carbone della Rhur (mandare soldi a casa, buttar giù due righe al mese per moglie e figli, fare il possibile per rimanere in salute). E’ che si sperava che 60 anni di industralizzazione di massa e progresso condiviso ci avessero cambiato la vita ma a quanto pare non è così.

Con un’aggravante. Quello dell’immagine e della focalizzazione. Diversamente dal mondo nero ed evidente, sassoso e ferrigno dei bacini siderurgici della Ruhrgebiet, descritto nella sua immediatezza di vista, udito, tatto e olfatto nelle lettere del bis-prozio, fogli striminziti a righe di scuola, piegati e ripiegati con accuratezza quasi maniacale, quello della Centrale è un mondo asettico, intangibile, ingannevole. Tutto è bianco latte, pulito, quasi sterilizzato. La centrale rifulge sotto il sole della campagna. Dalle ciminiere, un filo di fumo quasi trasparente, innocuo. L’acqua delle piscine di raffreddamento è azzurra. Di un azzurro puro, trasparente, brillante, sintetico, perfetto. Vien voglia quasi di farsi un bagno, lì dentro.
Si indossano tute pressurizzate, caschi, occhiali, doppi, tripli guanti. Involucro spesso, guscio di tartaruga, che dovrebbe proteggerci dall’atomo e dal sentimento. Solo che la cosa non funziona, in nessuno dei due contesti. La permeabilità inevitabile al sentimento si rispecchia nella vita nomade che solo all’apparenza è libera e scevra da qualsiasi vincolo: in realtà il pegno si paga con lo sradicamento dalla propria terra, dalle famiglie, dai figli, dagli amici, dalle tradizioni. Della permeabilità all’atomo neanche a parlarne, simboleggiata qui non dall’intangibile (troppo facile), ma da un qualcosa di fisico, sensibile, evidente ai sensi, eppure così inerme nella sua minuzia: un dado di acciaio staccatosi da chissà quale alloggio.

Al di là delle impicazioni politiche, per le quali vi rimandiamo alla rassegna stampa sul web, la Filhol ci catapulta, controcorrente rispetto a tanta parte della letteratura moderna, nel mondo (così umano) dell’imprevedibile e consegna nelle nostre mani una verità che vale la pena considerare: per quanto l’Uomo (moderno) pianifichi, coordini, definisca, concretizzi ciò che considera il Mondo, quello in cui ritiene degno e necessario vivere, attraverso procedure rigide ed efficaci, sistemi di controllo e verifica, non sarà mai in grado di eliminare del tutto, malgrado gli sforzi, l’area dell’UNCONFORTABLE, quella zona d’ombra del non calcolato, dell’imprevisto, dell’inatteso.

Ps. Sentiti ringraziamenti al “signore riccio” dello stand Fazi (Torino 2011) che ci ha aiutato nella ricerca di “quel libricino francese con la bella foto in bianco e nero in copertina e l’autore che ha il cognome che inizia per F”. A lui, i complimenti per la pazienza degna di un santo, a noi l’award “il bibliotecario perfetto 2011”.

mercoledì 20 luglio 2011

"Chiedi e ti sarà tolto", di Sam Lipsyte

More about Chiedi e ti sarà tolto Chiedi e ti sarà tolto. Del perché riflettiamo sul titolo. Perché la Morale della Storia è una sola: se alzi la mano domandando (timidamente, anche) che qualcuno – solitamente, il responsabile, “owner” della questione – si impegni a risolvere una situazione critica o di disagio che ti affligge, sta’ sicuro che arriverai a stare peggio di prima e non verrai a capo di nulla, per il consueto adagio, saggezza popolare di nonni lontani, del si stava meglio quando si stava peggio.
Andiamo con ordine.
  • Ho chiesto chiarezza ed etica ai miei colleghi e ai miei superiori, e mi sono trovato disoccupato. No, non solo disoccupato. Disoccupato e ricattato, con una grana da risolvere di quelle che alla classica sòla lavorativa del venerdì pomeriggio questa qui je fa ‘ un baffo;
  • Ho cercato di definire il rapporto con mia moglie (sabbie mobili profonde e insondabili) arenato, prosciugato (sic) chissà dove tra divano, tv e cure parentali, e tutto quel che ne è uscito è un certo Paul, nel letto del quale mia moglie si sente tutto tranne che prosciugata (sic);
  • Ho parlato con amici di vecchia data, gnocche compagne di college e parenti stretti. Io, che mi credevo un uomo virile, di età matura, padre di famiglia, marito impegnato e responsabile, ho scoperto di aver interpretato, per anni, agli occhi degli altri di cui sopra, il ruolo del tipo scialbo, sfigato, nerd, e diciamocelo, pure un po’ viscido e per niente atletico. E il bello è che quel ruolo, quello di sfigato cronico, lo ricopro tutt’ora;
  • Ho cercato di instaurare con mio figlio un vero rapporto di affetto, condivisione e complicità, e tirando le somme ho scoperto poi con orrore che, malgrato le fatiche e l’impegno, il geniale nanetto quattrenne si ritrova ad avere più interessi in comune con il sopraddetto Paul piuttosto che con me.
Insomma, Milo Burke è l’Uomo allo Specchio. Uno specchio malefico e infingardo. Perché questi “altri”, con cui Milo Burke desidera confrontarsi così spasmodicamente, chi sono?

Dunque. C’è l’artista incompresa che altro non è se non la consueta figlia di papà, e di talento non ne ha nemmeno quel tanto che basta per buttar giù a matita la lista della spesa sulla carta del pane. Ci sono i datori di lavoro, gente senza scrupoli, militarizzata, pacca sulla spalla e scopa di saggina pronta e stretta nell’altra mano. C’è il collega affamato di successo, che sembra così equilibrato e consapevole di sé ma che poi, alla sera, anziché tornare a casa (visto che una casa non ce l’ha) si rifugia in uno scantinato polveroso che condivide con altri suoi pari, sistemandosi per la notte nel suo loculo personale, una gabbia di tre metri per due arredata con un materasso sporco e poco altro, pagliericci di fortuna, promiscuità e lerciume. C’è una moglie fedifraga che, per altro, fa poco o niente per nasconderlo. C’è pure un bambino di età prescolare in balia di un gruppo di educatori di infanzia ecologisti radicali, maniaci e scriteriati, e di una babysitter col vizietto degli stupefacenti. E c’è una madre che a 70 anni e rotti ha giusto scoperto la sua vera indole e, dopo un matrimonio tradizionale durato decenni, ora divide la casa con una compagna giovane, palestrata e abbronzata, strafregandosene alla grande del suo ruolo di madre e nonna, un ruolo che, secondo Milo, una volta che hai acquisito non dovresti più perdere per strada - e di vista. E c'è l'alter ego di Milo: Purdy. Bello, ricco da far spavento, appagato dalla vita (pare) e dalla professione, circondato da lusso, amici veri, donne meravigliose (a loro volta belle, ricche da far spavento, appagate dalla vita eblabla).

E quindi? Dov’è la “normalità”? E’ questione che forse non c’è. Che poi, alla fine, non ci resta che riderne. Ma di una bella risata, intelligente, spontanea, viva, una risata che ha il sapore del passato, di quelle storie yiddish, quelle più vere e sagge, quelle che col sorriso ti fanno pensare. Quelle che raccontavano i nonni e gli zii, attorno al tavolo, tovaglie immacolate e cose buone da mangiare, calde e dolci, sui piatti. E magari pensarci su, ogni tanto, senza prendersi troppo sul serio.

Lettura veloce e continua, se no si perde il filo della narrazione, e un consiglio: vi rimandiamo anche alla preziosa analisi della cover ad opera di Who’s the Reader, qui.