Non
ti sembra possibile che in Helene, una bambina così minuta,
uccellino dall’aria smarrita tra chiffon e percalle inamidato,
alberghi una creatura tanto violenta nell’odio e nell’ira,
unghiette limate lunghe e guance morbide congestionate dal
risentimento. Ti prende alla gola la paura di aver sbagliato qualcosa
(sicuro, che hai sbagliato qualcosa), una sensazione di colpa e
vergogna nei riguardi di un futuro incerto (chissà cosa sarà di
loro | mi ameranno ancora | riuscirò ad amarli ancora),
malmesso, inconfutabile.
Questa
Irene ci ha ricordato da vicino un’altra saga familiare, quella
raccontata da Rosetta Loy nel suo “Cioccolata da Hanselmann”. Le
stesse bambine curate nell’educazione e nel vestito, lingue
straniere mandate a memoria alla perfezione, istitutrici private,
tate e badanti; maglioni di lana pesante, neve, paesaggi lunari e
grandi case abbandonate dalla guerra e dal destino, tra ricchezze e sentimenti nascosti, perduti, sperperati.
Ma
non solo.
Helene,
con l’innocenza crudele tipica di certe infanzie negate e
l’ingenuità propria dei bambini sperduti e MAL-educati, distrugge
in un sol colpo e senza quasi rendersene conto (via, uno schiocco di
dita) la vita di un’intera famiglia. Al pari dell’Antoinette
protagonista de “Il ballo”, che non per nulla è un’altra delle
più autobiografiche opere dell’Irene.
Le
due ragazze, con un gesto banale, forse neppure così premeditato,
sovvertono il destino di due famiglie, decretandone la rovina:
Antoinette, in un moto di stizza per essere stata abbandonata non
solo dalla madre, ma anche dalla bambinaia, getta nel fiume il
pacchetto degli inviti al ballo, dando il via ad una serie di
reazioni a catena tanto inarrestabili quanto irrimediabili.
Helene,
confidando appieno nella sua fresca, adoloscenziale bellezza, per
ripicca sottrae il giovane amante alla madre Bella (sic!), che per
così tanti anni ha ignorato - con dovizia di impegno e gran
profusione di energie - le responsabilità genitoriali.
Trasformandosi
da bambina goffa e indesiderata a perfetta femme fatale secondo
la più classica delle iconografie Belle Epoque, Helene in pieno
delirio di onnipotenza distrugge oltre che la psiche di sua madre,
già fragile di suo, anche tutta una serie di delicatissimi,
sotterranei equilibri familiari (“lei, lui, l’altro”) che a
lei, bambina sofferente e dimenticata (Chi vuoi che si curi dei
bambini, Helene – le dice un giorno Max, l’amante della
madre), neppure erano evidenti.
Antoinette,
gettando i cartoncini degli inviti nel fiume disgrega pezzo per pezzo
quello status sociale così faticosamente costruito dalla sua
famiglia: ricordate, la madre di Antoinette, popolana di bassa lega,
riscattatasi con il matrimonio, alla ricerca dell’affermazione
sociale?
Ci
troviamo di fronte ad una delle opere dell’Irene ancora
macchiate dall’idea forte del melodramma sentimentale. Bella è
caricatura di se stessa, trucco pesante, amori incondizionati,
ricchezze estreme e altrettante, repentine, cadute. Gli uomini sono
creature di sfondo, cupe ed enigmatiche.
Il
padre di Helene è l’uomo d’affari per antonomasia; brucia di
passione (un David Golder appena abbozzato) più che per il denaro
in sé, per il momento del rischio, dell’acquisto, della perdita;
tormento ed ebbrezza per il gioco d’azzardo, per l’imprevisto,
per la vita nomade del viaggiatore e dell’esule. Disprezzo per le
belle cose, per la pace dell’animo, per la famiglia tradizionale,
per la vita tranquilla.
Max,
il giovane amante di Belle, incarna all’opposto la figura del
giovane aristocratico ricco e flemmatico. Poca ambizione, giornate
lunghe da occupare con gite in macchina, donne, feste e conversazioni
infinite, musica e balli, tormenti amorosi.
L’Irene,
con gli anni a venire, affinerà la tecnica modellando personaggi
sempre più complessi, che riuscirà a liberare dai vincoli del
topos narrativo donando loro mille sfaccettature grazie alle quali
sarà in grado di esplicitare appieno la completezza del reale.
Qualcosa
però c’è, presente e vivo tra le pieghe di una scrittura giovane ma corposa e curata; un qualcosa che già spiega, in parte se non del
tutto, la fiducia incrollabile che Irene Nemirovsky ripone nella risoluzione
pacifica del conflitto bellico e della questione ebraica: se Irene
Nemirovsky nelle sue opere affronta le luci, e soprattutto le
ombre, delle esistenze di ogni suo singolo personaggio - comprese
quelle di una se stessa bambina – comprendendone le sorti alla luce di una pietas fortissima, tutta latina, come può non assolvere anche un supremo dittatore, nella
speranza, mai sopita finanche nel momento dell'esito finale, di una improbabile,
ma pur possibile, redenzione?
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