Ciurma
che si desteggia, più reattiva che PRO-attiva, tra le avversità
della vita a mano a mano che esse si presentano, non un momento
prima, come dire a dire che lo smazzo preventivo è pressoché
inutile di fronte alle avversità del destino, ma più spesso, forse, molti momenti
dopo (ove il “dopo” è effetto, quasi sistematico, di cellulari
dimenticati spenti, sveglie mai suonate, clamorosi colpi di testa
emotivi, sbronze, abbioccamenti clandestini durante l'orario di
lavoro e varie altre del genere medesimo).
E
così, per stessa ammissione dell’autrice, ciò che sembra non è
mai ciò che è, in un continuo gioco di specchi e di prospettive
multiple. La squadra di Adamsberg è composta da “(…) uno affetto
da ipersonnia che crolla addormentato sul più bello, uno zoologo
specialista in pesci, di fiume soprattutto, una bulimica che scompare
per fare scorta di cibo, un vecchio airone esperto di leggende, un
mostro di cultura che non si schioda dal vino bianco, e via di
seguito” (pag.83). Peggio di così, vien da dire, non si potrebbe.
Eppure, alla fine ci si salva sempre – non è detto che le
ammaccature non ci siano, per amor del cielo – ma ci si salva
perché ognuno è in qualche modo artefice, con le sue, personali
peculiarità, di quel pezzettino di destino che poi Adamsberg
finisce, non si sa mai come, per incastrare a mo’ di tessera di
puzzle.
Come
quella antica favola secondo cui il serpente non sarà bravo a
volare, ma striscerà meglio del coniglio, che invece darà il suo
meglio nel salto e nella corsa ma che ben volentieri lascerà al
passerotto il compito di cinguettare a squarciagola.
Adamsberg
e Danglard – e di riflesso, Fred Vargas, Sibilla d'Oltralpe –
tentano di restituirci un mondo che, nella sua “regionalità”
peculiare, vuole sfuggire alla globalizzazione del presente, almeno
per taluni aspetti più vicini all’identità dell’Uomo in senso
lato.
Danglard
è il custode della tradizione orale, della leggenda, della
narrazione popolare che quasi mai diventa (vedi sopra alla voce
“visibilità mediatica”) erudizione sterile e semplice
celebrazione del superego. Danglard ci racconta – lievemente
annebbiato dai fumi dell’alcool, che quasi sempre lo accompagnano,
in una sorta di estasi bacchica perenne (sacrableu, vino bianco per
altro) - di annedoti, leggende, memorie: a flusso continuo, producendo una quantità di notizie abnorme, evidentemente
esagerata dall’autrice il cui intento precipuo è l’identificazione
del personaggio attraverso l’iperbole e l’esemplificazione di un
certo tipo di vissuto.
Adamsberg
è, tra l'altro, l'uomo del piacere fisico che prima ancora di
esplicarsi con il sesso (vedi in questo caso la bella Lina) si
esprime nel cibo. Mai viene a mancare, contestualizzazione del testo
e suo inserimento all'interno di una dimensione “regionale”
territorialmente marcata, la citazione culinaria: qui abbiamo zuppa
di carote e spezzatino alla panna (vitello e fagioli, con il profumo
del fuoco di legna), calvados e zollette di zucchero, e per finire,
in un connubio di gusto, tatto e olfatto, il kouglof con mandorle e
mele.
Veyrenc
per stavolta ci piace ricordarlo così – che ci volete fare, al
cuor non si comanda, con buona pace di Danglard (è che c'è la
storia dei capelli rossi, e il pericoloso sorriso da ragazza, quindi
non stiamo a cantarcela sotto la doccia: il ragazzo, ormonalmente, disturba assai) -
in piedi nell'erba alta, a tre metri da Adamsberg, seduto sotto al
melo, intento a giocare a golf con delle piccole mele da sidro. La
mattina è limpida, ancora umida di pioggia, il sole si infrange
obliquo tra i rami. Chapeau.
Da
dire, incredibile come Camille, ahinoi, non ci sia mancata quasi
proprio per niente. E noi che pensavamo il contrario. Forse
compensata dalla notevole presenza scenica di uno Zerk in splendida
forma, quasi un Adamsberg ante litteram, un flashback su un giovane
Jean-Baptiste con lo sguardo sempre per aria, l’occhio acuto fisso su
dettagli quasi insignificanti (quasi), magliette e calzoni di misura
sempre troppo grande, infilati su alla bell’e meglio e uno spirito
di adattamento da far invidia a Reinhold Messner.
Che dire, noi
facciamo il tifo per lui.
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