Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

sabato 29 dicembre 2012

"La sinfonia di Parigi e altri racconti", di I Némirovsky


More about La sinfonia di Parigi e altri racconti Dopo “Tony & Susan” eccoci a voi con un altro dei nostri Christmas' reading: si tratta di “Natale”, “racconto” breve a firma I Nemirovsky contenuto nel volumetto di cui al titolo, appena edito (Novembre 2012) da @Elliotedizioni. In realtà ci troviamo di fronte a tre vere e proprie micro-sceneggiature più che a un esempio tradizionale di narrazione composta da pezzi minimi. 

La fascinazione di I Nemirovsky per la Settima Arte è nota ed evidente, già espressa al meglio sin dai tempi della trasposizione cinematografica di “David Golder” (6 marzo 1931) che tanto scalpore suscitò tra pubblico e critica (Philipponat – Lienhardt 2009: si vedano le pagine in proposito [196 e segg.]) sia per arte sia, ovviamente, per contenuti. 

“Quanto al parlato, lei ne vede unicamente i vantaggi: *Il muto ci faceva viaggiare tra i fantasmi... Grazie tante! Il cinema sonoro è un arricchimento prodigioso...*. *Il cinema è l'arte che più si avvicna alla vita, che ha la parentela più stretta con la verità...*. (I Nemirovsky) Lo ama talmente, e ne riconosce così volentieri l'influenza sulla propria arte – taglio delle scene, tecnica dell'inquadratura, vivacità dei dialoghi, priorità del suggestivo, avversione per il commento – che pensa addirittura di scrivere delle sceneggiature vere e proprie tralasciando provvisoriamente il romanzo (…) *Nella mia testa medito progetti di film, perché, come sempre, penso per immagini*” (op. cit. pag 199-200) 

Commenti ai contenuti del pezzo che vi abbiamo segnalato?! Solo uno: attenzione, maneggiare con cautela, perché l'Irene non si smentisce mai.

Buona lettura (natalizia) :)

domenica 16 dicembre 2012

"Tony & Susan", di Austin Wright


More about Tony & Susan Austin Wright, distinto signore deceduto nel 2003 all’età di 81 anni, narratore, critico letterario ed English Professor presso l’università di Cincinnati, lascia un corpus di opere composto di svariate antologie di saggi, sette romanzi e un prestigioso Whithing Writer’s Awa (1985). "Tony & Susan" uscì negli Stati Uniti nel 1993 e in Italia l’anno successivo, per Rizzoli; nonostante il titolo accattivante e l’intervento di Saul Bellow (mai tenero d’animo nei confronti dei colleghi writers) – che definì l’opera “un capolavoro” e l’autore “meraviglioso narratore e romanziere” - il testo non riscosse favore e venne annoverato dai critici nella folta schiera dei “negligible”. Così però scriveva nel 2010 W. Skidelsky, corrispondente al The Observer: 

“(…) the decision by Atlantic Books to republish Tony & Susan is odd: why resuscitate a novel written not that long ago and which wasn’t a big success in its day? The reason, says Atlantic, is that Tony & Susan’s neglect deserves to be rectified, since it is “the most astounding lost masterpiece of American fiction since ^Revolutionary Road^”. 

Data per scontata l’iperbolica “ansia da fascetta” che richiede sempre il suo obolo, senza dubbio l’opera contiene alcuni spunti interessanti che la rendono affascinante, attuale e consigliata quale… reading natalizio

Immaginate. Esterno, pomeriggio d’inverno che scivola nella notte fredda. Una serata a caso tra le cinque che separano Natale e Capodanno. Sobborghi residenziali dei ricchi States, una bella casa in stile “Mamma ho perso l'aereo”. Zoom veloce al bowindow del soggiorno che inquadra una scena familiare di archetipica patinatura: il disordine controllato delle feste, addobbi e luci sull’abete natalizio, carta da regalo sparsa sui tappeti, tre ragazzi di varie età che si intrattengono con alcuni giochi da tavolo. Adagiata sul divano – il gatto accoccolato accanto – c’è Susan Morrow: elegante signora quasi-50 enne, moglie in seconde nozze di Arthur, cardiochirurgo di successo al momento travelling on business purposes, è madre di tre figli, casalinga a tempo pieno e insegnante di inglese part time presso una scuola locale. 
Susan è intenta a scartare un manoscritto che le è appena giunto per posta, con preghiera di valutazione sincera, da parte di Edward, il suo primo marito. La separazione, piuttosto turbolenta, risale a 20 anni prima e gli sporadici contatti successivi si limitano a una laconica cartolina per le feste firmata da Edward stesso e dalla di lui seconda moglie. L’ambizione di Edward di diventare scrittore è stato il primo dei motivi a causa della rottura: da una parte Susan, scettica sul talento dell’uomo, dall’altra Edward stesso, affetto da una giovanile e inconcludente febbre da artista che lo lascia privo di un lavoro stabile e vittima di una grave depressione a cui Susan, nella sua praticità “coi margini su tutti i lati”, non sa far fronte se non con la fuga. 

Il titolo dell’opera che con curiosità e un pizzico di inquietudine Susan si appresta a sondare è “Animali notturni” e ha per protagonista Tony Hasting, uno stimato professore universitario, coetaneo di Susan. 

Wait a minute. Ritorniamo un momento al titolo dell’opera di Wright, che a questo punto acquista un significato tutto particolare perché mette in comunicazione non solo due individui ma anche e soprattutto due mondi: quello della “realtà” e quello della “finzione”. Ormai è fatta: siamo stati catapultati nel bel mezzo di una novel-within-a-novel nostro malgrado, giacché spesso questo espediente letterario rivela dubbio gusto, grossi limiti dell’autore, incapace di governare con professionalità un asse narrativo coerente e protratto nel tempo, e profonde lacune stilistiche (cfr PGiordano CorSera 06/10/2011 | recensione all’opera | Adelphi: “Quando in una storia vedo comparire un protagonista-lettore, ho sempre il sospetto che sia stato messo lì allo scopo di adularmi, di rassicurare, mentre io pretendo tutto il contrario dal libro che sto leggendo”). Epperò la questione destabilizzante è che "Animali Notturni" regge. Pure da solo. E di certo non “rassicura”. 
Con un senso di crescente disagio se ne accorge pure Susan, via via che procede con la lettura che diventa sempre più intrigante. Il mite e inconcludente Edward, che aveva ripiegato su un lavoro impiegatizio presso una ditta di assicurazioni, pare avercela fatta: è diventato scrittore. Di un thriller mozzafiato! Di quelli hard-boiled, pesanti, truci. 

Tony Hastings è un tranquillo professore universitario, “coi margini su tutti i lati”, in viaggio con moglie e figlia adolescente alla volta del Maine: trascorreranno le vacanze estive presso la casa di famiglia. Su insistenza della figlia Tony abbandona il progetto di pernottare in un motel e si accinge a proseguire il viaggio in un on the road notturno. Purtroppo, però, quando il buio è profondo, due auto misteriose ingaggiano una pericolosa gara di velocità con Tony, lo affiancano e lo speronano. L’inadeguatezza di Tony, che non trova modo di reagire ai tre balordi scesi dalle vetture, fa si che l’auto di famiglia (moglie e figlia comprese) sia requisita da due di essi: le donne sono quindi rapite e portate chissà dove mentre a Tony ne capitano di tutti i colori in un crescendo di suspance e angoscia. E’ abbandonato dall’altro conducente in mezzo ad un bosco, tra le colline buie e disabitate che circondano la statale. A piedi tenta di ritrovare la statale, si ferisce, cade in un torrente, scampa all’agguato del conducente stesso, tornato indietro per ammazzarlo (?), sempre domandandosi con cupa preoccupazione, amplificata dalla notte e dal paesaggio inquietante e alieno, che fine abbiano fatto moglie e figlia, figurandosi quel che gli pare oramai inevitabile: violenza, stupro, omicidio. 

Chi sono, questi Animali Notturni? I tre balordi che sequestrano le due donne, nel buio minaccioso di una statale semideserta? Sicuramente. O forse animale notturno è anche Tony, mite professore incapace di qualsiasi violenza, anche solo come autodifesa, che rimane muto e immobile di fronte alle preghiere terrorizzate della moglie e alle grida isteriche della figlia per poi scoprirsi pronto a trasformarsi, assieme al poliziotto incaricato del caso, in un carnefice e aguzzino più spietato degli assalitori medesimi? Chi lo sa, si domanda Susan. La questione è che di domande ne affiorano anche altre, nella mente della donna, giacché si dà il caso che Tony le somigli molto, per età, professione, “margini su tutti i lati”. Susan, così adeguata al ruolo che negli anni si è auto-imposta: moglie devota, madre presente e affettuosa, regina della casa. Così civilizzata. Tanto da essere divenuta insensibile e cieca nei riguardi di quella sottile paura che spesso la attanaglia, e che sempre – per “quieto vivere” - rigetta all’interno di sé, in quell’angolo di buio notturno nel quale è meglio esimersi dal rovistare. Così, mentre i ragazzi giocano tranquilli e fuori la neve cade in fiocchi allegri, Susan si trova costretta a riflettere. 

Perché Arthur insiste nel voler accettare l’offerta di quella clinica di Washington? Non pensa alle esigenze della moglie e dei figli, tutti e quattro costretti a un cambio radicale di lavoro, scuola, amici, abitudini? A Washington, Susan ne è al corrente, Marylin Linwood possiede un pied-à-terre. Marylin, la bella segretaria con cui Arthur, famoso chirurgo, marito e padre devoto, ha intessuto una relazione sessuale durata diversi anni e ora – stando alle teatrali dichiarazioni dell’uomo - definitivamente conclusa. 
Perché Susan non è riuscita a imporsi nell’ambito professionale, né con Edward né poi con Arthur? Intelligente, laureata, ottime speranze, si ritrova dopo più di vent’anni a insegnare ancora in scuole di provincia, part time, quasi per hobby. 
Perché non può smettere di pensare che il manoscritto sia in realtà una cruda e particolare forma di vendetta nei suoi confronti? Chi è – o chi è diventato – Edward, il marito (conosciuto in gioventù, il bravo ragazzo benvoluto dalla famiglia di Susan), tradito dalla moglie e poi abbandonato al proprio destino in un momento di fragilità mentale? (Eh sì, perché Susan, ha conosciuto Arthur prima di lasciare Edward, non dopo) Curioso, che all’unica donna presente in "Animali Notturni", una sciacquetta tardo-adolescente di ingegno non brillante e stivali in lattex, Edward abbia affibbiato proprio il nome della prima moglie... 

Non è che l’uomo medio (o la donna media), quello civilizzato, contrario alla pena di morte, devoto alla famiglia tanto da sacrificare se stesso e le proprie ambizioni al bene comune, sia – di fatto – un perdente? Perché Tony non ha reagito di fronte alle provocazioni dei tre delinquentelli, che per la cronaca non hanno estratto neppure un coltellino da frutta, al momento dell’“aggressione”? Per viltà ma soprattutto per intima convinzione, per coerenza nei riguardi di una particolare visione della società che – di fatto – Tony si è autoimposto; allo stesso modo in cui Susan aveva scelto di lasciare Edward perché non corrispondente ai canoni di “marito ideale” che si era lei stessa autoimposta, preferendogli un Arthur tutto d’un pezzo: lavoro sicuro, carriera gratificante, preciso percorso davanti a sé. Abbracciare la propria umanità significa quindi seguire la legge e il senso di giustizia, oppure far valere le proprie ragioni, fino alla vendetta e alla legge del contrappasso? 

Il gioco a matrioska rapisce: il lettore legge di Susan, che di rimando si trova catapultata nel mondo di Edward, che però a sua volta parla del “personaggio” Tony, che a sua volta torna, con raffinata introspezione, a Susan stessa. Lo stile è solido, si modifica in base ai livelli di lettura affrontati: fluido, pacato nella linea di analisi dedicata a Susan; secco, paratattico, fedele al topos del thriller nelle parti riservate a Tony. 

E su tutto regna incontrastato Austin Wright, a farsi beffa, anche da trapassato, del proprio lettore.

Buona lettura (natalizia) :)

giovedì 13 dicembre 2012

"Mozart", di Paolina Leopardi - una serata da #salotto

Scusandomi per il discreto ritardo vorrei menzionare la bella serata di giovedì 6 Dicembre trascorsa nel #salotto di @Tempoxme_libri. Grazie alla presenza di tanti ospiti (lettori attenti e pure competenti filologi, che meraviglia!) e alla partecipazione del curatore dell’opera, Alessandro Taverna, accompagnato dal redattore editoriale della casa editrice Il Notes Magico (@ilnotesmagico), la discussione ha preso fin da subito una piega interessante e ricca di spunti.

L’argomento – la biografia di WAMozart ad opera di Paolina Leopardi, sorella del ben più noto Giacomo – potrebbe apparire ostico e di nicchia ma, vi assicuro, l’apparenza inganna. Con mia grande sorpresa infatti ho avuto modo di approfondire un testo (NB: non l’avevo ancora letto) sia tecnicamente completo per fonti e biografia, sia agile, brillante e audace. Non solo: l’autrice è vivace e colta, pronta a recepire e ad interpretare, secondo il proprio gusto, la propria personalità e soprattutto proprio vissuto, ogni minima sfumatura del reale. In questo modo la biografia del celebre genio diventa spunto, e per l’autrice, e per il lettore, per una riflessione a tutto campo non soltanto sulla letteratura musicale e in generale sull’arte, sulla cultura e sulla società europea del periodo mozartiano, ma anche e forse soprattutto sulla vita di Paolina e Giacomo Leopardi, sui loro rapporti con la famiglia (specialmente con il padre), con l’arte, la letteratura e l’800 italiano. 

Attraverso la sua esperienza di appassionata studiosa e letterata quasi totalmente selfmade, Paolina Leopardi con quest’opera ha avuto il prego di rammentarci il ruolo della donna, fondamentale e spesso nascosto, all’interno delle dinamiche letterarie “salottiere” che tanto hanno animato la vita culturale italiana ed europea degli ultimi tre secoli. 

Per riflessioni più approfondite vi suggerisco di visitare il sito di @Tempoxme_libri (che ringrazio moltissimo per l’ospitalità e per la piacevole serata) alla sezione dedicata
Di seguito potete trovare anche i collegamenti alla casa editrice Il Notes Magico e al suo blog, ove potrete trovare tutte le informazioni riguardanti il volume e l’autrice. 
Buona lettura :)

giovedì 22 novembre 2012

"Coral Glynn", di Peter Cameron


More about Coral Glynn Inghilterra. Una donna comune, non bella, di scarse possibilità economiche ma di ampia capacità professionale, ancora giovane eppure già provata dalle avversità della vita, si ritrova a dover prestare servizio in una grande casa di campagna, umida, fredda, buia, malcurata. Il padrone di questo maniero perennemente avvolto da umidità e pioggia è un esponente della upper class tormentato da un passato oscuro e da un presente ancora più inquietante. La donna, malvoluta dalla servitù della casa ed estranea alla comunità del paese vicino – emarginata a causa della misera posizione sociale e del carattere schivo - deve destreggiarsi tra vicende che suo malgrado si fanno sempre più intricate fra drammatici avvenimenti pubblici e intimi segreti inconfessabili, triangolo amoroso compreso. 

Cos’è, vi sto raccontando, in grande sintesi, la trama di “Jane Eyre”? No, stiamo parlando proprio di “Coral Glynn”. Bene, allora ci riproviamo con un po’ di tracking changes, aggiungendo qualche particolare in più e giusto un paio di ingredienti segreti targati David Cameron: ironia, humor, senso del grottesco e un pizzico (lieve) di cinismo. 

Inghilterra, Leichestershire, primavera 1950. L’infermiera Coral Glynn, una donna comune, non bella, di scarse possibilità economiche ma di ampia capacità professionale, ancora giovane eppure già provata dalle avversità della vita (genitori deceduti da tempo, amato fratello caduto nella battaglia di El-Alamein), si ritrova a dover prestare servizio in una grande casa di campagna, umida, fredda, buia, malcurata. Deve assistere l’anziana e moribonda Mrs Hart, malata terminale. Il di lei figlio unico, il Maggiore Clement, padrone di questo maniero perennemente avvolto da umidità e pioggia, è un esponente della upper class, un reduce di guerra tormentato da un passato oscuro e da un presente ancora più inquietante. Coral, malvoluta dalla servitù della casa ed estranea alla comunità del paese vicino – emarginata a causa della misera posizione sociale e del carattere schivo - deve destreggiarsi tra vicende che suo malgrado si fanno sempre più intricate fra drammatici avvenimenti pubblici e intimi segreti inconfessabili, triangolo quartetto amoroso compreso, composto dal Maggiore Clement, dall’amico di lunga data Robin, che nutre nei confronti del Maggiore un amore forte e dichiarato, dalla di lui moglie, l’energica Dolly, rassegnata ma non troppo ad un matrimonio di mera facciata; e naturalmente Coral stessa. 

Insomma, "Coral Glynn" possiede – non per niente l’autore dichiara di aver impiegato ben 5 anni a concludere l’opera - la tensione della gothic novel di puro, classico, stampo anglosassone e la grazia del romanzo di introspezione, per non parlare delle suggestioni provenienti dalla più tipica “comedy of manners”, sempre anglosassone, il tutto rivisto e reinterpretato da un autore di origine e cultura made in USA (ricordiamolo perché visto l’imprinting dell’opera, assolutamente British, questo “piccolo” particolare potrebbe sfuggirci). Insomma, di materiale su cui riflettere ce n’è eccome. 

Sarebbe tuttavia un peccato rivelarvi di più sulla trama, lineare e quasi scarna per altro - doveroso sottolinearlo nei confronti di chi si aspettasse grande azione e fuochi d’artificio (attenzione a non rimanerne delusi!). Quindi vorremmo soltanto porre l’accento su alcuni temi utili, a parer nostro, alla comprensione del testo. 
  • Prima di tutto, il malinteso. Quel (poco) che accade, almeno nella prima parte di questo racconto lungo, per ammissione stessa di Coral è tutto frutto di un “gran pasticcio”. I protagonisti non si comprendono tra loro, né quando parlano, né quando stanno zitti (vedi Clement e sua madre, oppure nel rapporto con l’amico Robin). Per altro non comprendono neanche se stessi – vittime come sono di equilibri interiori ricchi, complessi e dunque difficili da gestire, tra desideri frustrati di azione e redenzione e conseguente tendenza, delle volte, alla passività aggressiva. Nulla di patologico, comunque: solo la “versione Peter Cameron” della vita quotidiana (*). 
  • La questione interessante è che la mancanza di introspezione psicologica dei personaggi, specie nella prima metà del racconto (forse la più riuscita), declassa il lettore a semplice spettatore, al pari dei protagonisti dell’opera: spettatore passivo e succube delle vicende che “accadono” senza che sia possibile, almeno per il momento, ritrovarne il senso. Pur tuttavia, è sapiente il gioco di Cameron che utilizza questo stratagemma letterario al fine di ottenere il totale e incondizionato coinvolgimento da parte del lettore stesso (perché attenzione, "Coral Glynn" crea assuefazione: inutile resistere, continuerete a leggere una pagina via l'altra “per vedere cosa succede dopo”), effetto brillantemente ottenuto soprattutto grazie al punto di vista interno multiplo, per definizione parziale e tendenzioso.
  • Da qui viene di pensare alla ricorrenza di trama e personaggi, che in questo caso ben si accomunano ad un’altra opera dell’autore “The city of your final destination” (“Quella sera dorata” -> qui) che già nel 2002 riproponeva all’incirca i medesimi spunti di riflessione – villa decadente e triangolo amoroso compreso, sullo sfondo di una grande tragedia pubblica e privata. 
  • Le rivelazioni, gli aiku di tre righe, le parti descrittive viste sempre con l'occhio del protagonista del momento. Ve ne lasciamo alcune:
"Voglio soltanto non inacidirmi e non morire dentro come mia madre, e se vivo qui da solo so che succederà. Sento già un qualcosa in me, un qualcuno che va di stanza in stanza a chiudere tutte le porte, a sprangare le finestre" [Clement, p48]

"(...) sulla parete accanto al letto, c'era il quadro di un bulldog col fez che guardava un rospo con il pince-nez e il tocco accademico; il cane aveva la testa inclinata di lato, il rospo la lingua tutta fuori. Sotto c'era il titolo: Amici per la pelle" [Coral, p58]

"Forse è meglio perdere del tutto una cosa che stare aggrappati ai pezzi che ci sono concessi" [Dolly, p170]

(*) Chi è Coral Glynn, ovvero la signorina Nessuno, o La Qualunque. Potrebbe essere una ragazza affascinante se solo non vestisse in maniera così sciatta (il vil denaro non c’entra, è proprio lo stile, quello di cui è carente); non è particolarmente brillante e, diciamocelo, certe sue uscite proprio non sembrano il massimo del raziocinio. Non ha particolari interessi e nemmeno intende coltivarli (che so, per avanzare socialmente) e per altro non è neppure una così coraggiosa eroina. Passione e fuoco ardente, poi, non sono attributi a mezzo dei quali potremmo definire il personaggio. Coral è il neutro su cui i colori spiccano, scuri o chiari che siano. E’ il personaggio zero, quello che non esiste di per sé ma rende reali tutti gli altri, in maniera detonante. E’ la miccia che fa saltare la dinamite che da anni riposa quieta tra Clement e Robin, e tra Robin e Dolly. E’ l’espressione (passiva) della società postbellica dell’epoca, tra modernità e tradizione secolare, parità dei sessi, misoginia e classismo (la donna single, indipendente, sessualmente libera, che senza dimora fissa si sposta di città in città per lavorare; l’upper class ancora legata, a doppio filo, alle rendite del latifondo; il maschio che sistematicamente abusa della femmina; una moglie childfree che con serenità chiede il divorzio). 

Il merito di Cameron sta, ancora una volta, nell’essere riuscito a inscenare un “dramma della normalità” assolutamente credibile e ben congeniato dall’inizio alla fine, offrendo al lettore una “suspense del nulla” che lo trascina inevitabilmente, spettatore passivo di una commedia teatrale, fino all’epilogo, per altro inconsueto, spiazzante e rivelatore: come nella vita quotidiana, così in Coral Glynn tutto si risolve, nel bene e nel male. E spesso ciò avviene né grazie a - né per colpa di - qualcuno. Più che le scelte consapevoli, personali, motivate, a far la differenza sono gli eventi minimi, accidentali, fortuiti, gli scarti del tempo e dello spazio; come a dire… “Un giorno questo dolore ti sarà utile”.

Buona lettura :)

giovedì 1 novembre 2012

"L'isola del tesoro!!!", di Sara Levine

More about L'isola del tesoro!!!Il bello dei pirati è che spesso sono solo un pretesto.

Riuscite ad immaginare che cos'è solcare l'Oceano. Per settimane non vedere altro che l'orizzonte, perfetto e vuoto. Vivi nella morsa della paura: paura della tempesta, di un'epidemia a bordo, paura dell'immensità. E allora devi spingere bene quella paura in profondità, e studiare le carte; osservare la bussola, pregare per un vento favorevole, e sperare: pura, autentica, fragile speranza.

Da principio non è altro che una nebbia all'orizzonte. Allora osservi meglio. Osservi meglio. Così diventa una macchia, un'ombra in lontananza sull'acqua. Passa un giorno, poi un altro giorno. E quel segno lentamente si spande lungo la linea dell'orizzonte prendendo forma, finchè il terzo giorno permetti a te stesso di credere e osi sussurrare la parola: Terra.
Vita, resurrezione.
La vera avventura, generata dalla vastità dell'ignoto, sorta dall'immensità a nuova vita. Questo, Vostra Maestà, è il nuovo mondo.” (*)

Così l'affascinante navigatore, corsaro e poeta Sir Walter Raleigh (ca1552 – Londra 1618) nella verisione cinematografica Shekhar Kapur / Clive Owen si rivolge a una Regina Elisabetta di età ormai matura che, immalinconita dalla complessità della vita di corte e piegata dalle pesanti responsabilità che il ruolo le impone, altro non brama se non la freschezza di un vento puro, foriero di una resurrezione a nuova vita.

Questo per dire che la forza del “L'isola del tesoro!!!” (non dimenticate i punti esclamativi) sta nell'aver dimostrato, ancora una volta, di come la lettura di un grande classico dell'avventura (prima ancora di essere un "romanzo di pirati") possa fare la differenza – sia dentro sia fuori dal testo.
E pazienza se poi l'interpretazione che ne viene è quella che è, del tutto personale. Quella giusta arriverà, in seguito.

Dentro il testo succede che l'autrice, Sara Levine, che di mestiere fa l'insegnante (e si sente), già vincitrice di alcuni premi letterari come scrittrice di short stories, ci invita a fare la conoscenza di una 25enne ne più ne meno differente da una delle tante giovani universitarie (o post-universitare) tra quelle che probabilmente le capitano davanti, a lezione, quasi tutti i giorni.
La protagonista, di acuta intelligenza, figlia della media provincia americana, possiede una laurea in non si sa bene cosa - un titolo di studio che comunque al momento non le è di alcun vantaggio – un impiego part time in un pet-shop, un fidanzato capitato più per caso che per scelta, un'amica storica un po' stralunata, una famiglia levemente disfunzionale e sulle spalle il peso costante dell'affitto del monolocale da saldare a fine mese.
E' questione che la giovane antieroina (intraprendenza pari a zero, interesse per un avanzamento sociale e uno sviluppo personale nullo etcetc: “Io, invece, la figlia maggiore, lasciavo sconcertati i miei perché non scrutavo l'orizzonte alla ricerca di occasioni per fare volontariato, perché scappavo via da chiunque puzzassse di persona bisognosa e perché bazzicavo il centro commerciale e correvo dietro ai ragazzi. Che interessi avevo? Perché insistevo a guardare la tivù? Perché non mi applicavo?” [p89]) un giorno si imbatte per caso in una copia sdrucita del classico di Stevenson, e da esso ne trae, come dire, la Rivelazione.

Ossia decide, rapita dalle gesta del giovane Jim, di stravolgere, anche lei, tutta la sua vita, per altro applicando quelli che crede siano i grandi “Valori Fondamentali” del racconto: Audacia, Risolutezza, Indipendenza e “Battersi la Grancassa”.

Da qui al disastro totale la strada è ovviamentre brevissima: perché nella foga liberatrice dell'esaltazione data dall'avere – finalmente – un “progetto” di vita da seguire e da portare avanti sino alla fine, a farne le spese saranno un po' tutti: la titolare del negozio di animali, la migliore amica Rena, il fidanzato (che diventerà ex), la sorella Adrianna, i genitori che si troveranno, dopo anni passati tra sereno affetto e caldo clima familiare, a vivere da separati in casa, l'una asserragliata in cucina tra pentole e fornelli, l'altro ermeticamente chiuso nella Taurus di famiglia parcheggiata in garage.

La luce arriverà, come si diceva sopra, un po' per intimo convincimento (“Se mia madre incarnava i Valori Fondamentali meglio di me, non gliel'avrei mai perdonato” [p137]) e un po' grazie a qualche spintarella esterna (“Non ci definirei 'indipendenti', ma che importa? Le persone interdipendenti sono molto più simpatiche. Tu, invece, vivi come se fossi l'unica persona presente in questa stanza!” [Rena – p178]) e poi, come nella migliore e più classica tradizione piratesca, avrà infine le fattezze di un magnifico tesoro, tanto più prezioso quanto più scovato per caso (in questo caso, nella tasca sdrucita di una borsa consunta): una mappa misteriosa, vergata a mano, con tanto di X rossa e una stella dorata a segnare la meta.

(*) from "Elizabeth, the Golden Age" qui, dal minuto 1:29 

Buona lettura :)

Ps. Per quanto riguarda il fuori dal testo, che dire. E' inutile, l'avventura per mare ci prende, sempre, ad ogni età e una volta ch ci sei entrato, lì dentro, non puoi più uscirne. Noi ne avevamo parlato qui, occupandoci di un libricino targato Sellerio 1996 (“Il canto dell’equipaggio” di Pierre Mac Orlan). 
Da “L'isola del tesoro” a “Cast away”, passando per “Moby Dick” e l' “Odissea”.

Special thanks to @martatraverso per la bella Twitter-chiacchierata sull'opera, su cui ha speso interessanti riflessioni (here, mi permetto il link). Messaggio in codice: Richard forever. 

martedì 16 ottobre 2012

"Non tutti i bastardi sono di Vienna", di Andrea Molesini

More about Non tutti i bastardi sono di Vienna Funziona che certi testi devono decantare nell'animo. 
Solo ora affrontiamo il titolo vincitore del Campiello 2011, “Non tutti i bastardi sono di Vienna” di Andrea Molesini (Venezia, 1954), esordiente al suo primo romanzo ma di certo non una new entry del panorama editoriale italiano: professore di letteratura italiana contemporanea a Venezia, scrittore per ragazzi (premio Andersen 1999), traduttore (Pound, Simic, Walcott), poeta. 

Lettura lenta prima di tutto, perché succede che fin dalle prime pagine si venga sommersi da echi lontani, voci nascoste una dentro l’altra che occorre prendersi il tempo di decifrare: un’opera colta, questa, che riporta, come ha ben espresso la critica (*), da una parte alla tradizione hemingwayana di "Addio alle armi" per temi e struttura del dialogo (Matteo Giancotti, CorSera Veneto 23/07/2011), dall’altra a Pavese (“romanzo di iniziazione”), Fenoglio “per i toni minori […] e per l’attrazione-reverenza […] nei confronti di alcune figure femminili” (Giovanni Pacchiano, Sole24Ore 19/06/2011) e Nievo (Ermanno Paccagnini, CorSera 07/11/2010). O ancora, a Tommasi di Lampedusa per alcune scene interne e corali (sempre EPaccagnini) che rimandano anche, per dialoghi e struttura, all’arte teatrale (Bruno Quaranta, ttL La Stampa, 22/10/2011). 

L’opera – una delle poche dedicate a questo tema - affronta uno dei momenti più critici della Storia d’Italia, quello appena successivo alla disfatta di Caporetto fino a Vittorio Veneto. L’autore mescola con abilità e delicatezza, senza forzature né in un senso né nell’altro, le vicende storiche di quella parte di Italia alla sinistra del Piave che fra il 9 novembre 1917 e il 30 ottobre 1918 viene a trovarsi al di là dalle linee nemiche, e la storia privata - per metà creata ad arte, per metà testimonianza d'epoca - di una famiglia di alta borghesia, gli Spada, “invasa a casa propria”, rimasta isolata in una villa a pochi chilometri dal fronte, insieme al resto del paese. 

Il resoconto della vicenda è affidato al diciassettenne Paolo, orfano dei genitori deceduti anni prima nel naufragio di un piroscafo non ben identificato. Paolo è affidato al nonno Guglielmo, spirito libero e anticonformista (da anni impegnato nella stesura di un “romanzo” di cui nessuno ha mai letto neppure una pagina dattiloscritta), alla coltissima nonna Nancy, brillante matematica in possesso di un albero genealogico internazionale (e di una collezione unica di clisteri da bagno, che utilizza regolarmente), alla nubile ma ancora affascinante zia Maria, vera amministratrice di casa Spada. 
A villa Spada pongono il comando prima i tedeschi e poi gli austroungarici, di cui Paolo è osservatore curioso. 
Il suo sguardo lucido e spietato raccoglie appieno il tema sociale principe della narrazione, ossia il rapporto difficile tra una famiglia nobile - una certa classe sociale italiana ed europea oramai in declino - e i comandanti stranieri spesso aristocratici e ben istruiti che a fatica riescono a digerire il ruolo imposto loro dalla barbarie della guerra. Entrambi i protagonisti, vincitori e vinti, sono impegnati a combattere la medesima rassegnazione incipiente nei confronti del nulla, a essa opponendo una strenua “cortese scortesia” quasi che le buone maniere possano ergersi contro la forza imponente della brutalità. Fino all’inevitabile precipitare degli eventi. "Se il nostro attaccamento alle buone maniere venisse a mancare, cosa resterebbe fra noi e l'agire dei predoni?" (p213) domanda l'affascinante Generale Bolzano alla Signora Nancy, un dialogo serrato che deve la sua perfezione anche alla contestualizzazione impareggiabile (una cena di gala a casa Spada “gentilmente offerta” dai dominatori ai dominati, con tanto di servitù in livrea schierata ai bordi della scena, sotto i ritratti degli antenati Spada illuminati dalla luce fioca delle candele).

In mezzo, una serie di comprimari anch’essi disegnati con stile, dalla servitù di casa Spada (la vecchia Teresa con la figlia Loretta), il custode Renato, che di segreti ne nasconde un po’ troppi, la misteriosa Giulia, altra figura femminile abilmente tratteggiata con sensualità e vigore, il capitano tedesco Korpium e il barone austriaco von Feilitzsch, impeccabile nei modi ma inflessibile nel ruolo impostogli dalla fedeltà alla bandiera. 
Io… io, Madame… ho visto i miei soldati venire su da quel fiume, venivano su dall’acqua, come i vostri gnocchi di patate nel tegame, mi capite, Madame? Gnocchi nell’acqua che bolle” (p.324) si lascia sfuggire il barone a colloquio con donna Maria, in un momento di profonda confidenza a giochi ormai conclusi. 

L’opera è percorsa da ritmi diversi ben congegnati, che assecondano quelli della guerra, tra attese in trincea e improvvisi attacchi di cannone, e quelli della natura, fra inverni sempre più lunghi, freddi e poveri, la neve dei campi sfigurata dal sangue dei militari caduti sotto le cannonate, ed estati roventi foriere di morte ed epidemie, odori di sangue e putrefazione.
La narrazione sociale si sostiene grazie alla puntuale ricostruzione storica e all’uso di una lingua viva e dinamica in cui il dialetto si esplica ad hoc, solo quando occorre, e si intreccia con il romanzo di formazione: il potere ipnotico e urgente della guerra catapulta Paolo, adolescente irruento nel fiore dell’età, dall’ovatta tiepida, autoironica (non mancano i momenti comici, infatti) e aristocratica della famiglia Spada al mondo adulto. In pochi mesi Paolo affronterà la morte e la tragedia della battaglia che porta con sé la fame, la malattia, il compromesso morale, lo stupro, l’assassinio ma scoprirà anche l’euforia dell’avventura patriottica e la passione amorosa. 

E siccome “Non tutti i bastardi sono di Vienna”, a voi l’onore di scoprire quale sia il vero, più feroce bastardo dell’opera.

Buona lettura.

(*) Grazie a @sellerioeditore per la rassegna stampa sull'opera: la potete trovare qui, sul website dell'editore, completa anche di documenti video e audio. Alla memoria di Elvira Sellerio, per altro, AMolesini dedica la vittoria del premio Campiello.


sabato 6 ottobre 2012

"L'amica geniale", di Elena Ferrante

More about L'amica geniale Torino, giorni nostri. Elena Greco, una donna sulla sessantina, riceve una telefonata: Raffaella Cerullo, sua coetanea e amica fin dall’infanzia, è sparita dalla sua casa di Napoli. Ne comunica notizia il figlio di Raffaella, nella speranza che Elena possa essere a conoscenza degli spostamenti della madre. Anche perché dalla casa di Raffaella mancano diversi oggetti: le fotografie che la ritraggono, i suoi abiti, i documenti. Elena allora, indispettita con l’amica che pare aver dato il via al suo progetto di sempre, decantato e celebrato da decenni, ossia sparire senza lasciare alcuna traccia di sé, presa dalla rabbia e da un curioso istinto di vendetta comincia “a scrivere ogni dettaglio della nostra storia, tutto ciò che mi è rimasto in mente”. 

Da qui parte un lungo e organico flashback che ci riporta nella Napoli degli anni ’50; Elena, voce narrante e protagonista della vicenda, ci racconterà l’amicizia delle due protagoniste, prima bambine e poi adolescenti, ripercorrendo i luoghi dell’infanzia: un rione periferico dell’area suburbana partenopea, tra miseria postbellica, boom economico e una serie infinita di comparse e attori comprimari, dal ciabattino al falegname, ai compagni di scuola, fino a Don Achille, il camorrista del quartiere. 

Questa, in estrema sintesi, la trama dell’opera. “Estrema sintesi” perché parlare di questo ultimo lavoro di Elena Ferrante è questione complessa (come lo è, in effetti, per tutte le sue narrazioni). Prima di tutto doveroso dire che si tratta, più che di un unico romanzo, di un progetto di scrittura articolato in due (o tre) volumi (qui il secondo, in uscita in questi giorni), rispettivamente dedicati all’infanzia e all’adolescenza delle due ragazze, alla maturità e poi alla vecchiaia. 

Un raro esempio di romanzo di formazione italiano? Certamente. Perché l’amicizia tra le due ragazze è complessa, ambivalente, a chiasmo. Un’amicizia che allontana e divide, in nome di una fedeltà eterna ma anche di una rivalità bruciante. Elena è brava e buona, bionda, rotondetta; una creatura mite e affabile. Raffaella invece è secca, aguzza, sporca nelle ginocchia, arruffati i capelli - e cattiva, perché è in grado di ferire chiunque le capiti a tiro, dalla maestra al bulletto di quartiere, sia con il coltellino che tiene sempre in tasca, sia con le parole che, del coltellino, possono essere molto più affilate. Un viaggio nell’essenza del femminile in compagnia di due bambine e poi di due ragazze “geniali”, che ciascuna a suo modo – attirandosi e respingendosi - cercheranno, rapite dal turbine del vigore postbellico, di emanciparsi dalla realtà popolare che le circonda. Prima di tutto attraverso la scuola, che Raffaella, malgrado le capacità straordinarie, dovrà abbandonare al termine della licenza elementare per volere dei genitori e che invece Elena potrà continuare, fino a concludere addirittura il liceo classico, contando su un talento certo inferiore rispetto a quello dell’amica – che non si stanca mai di emulare – ma su una volontà ferrea, concreta (che invece manca all’amica, persa, come tutte le personalità di genio, in interessi momentanei che poi, una volta terminato l’entusiasmo iniziale, abbandona, vittima di quegli stranianti scarti di pensiero a cui Raffaella stessa dà il nome di “smarginature”) ma anche fortemente intuitiva (quasi… geniale?) che la porterà all’emancipazione dal degrado, fisico e psichico, del quartiere. 

Raffaella invece, costretta nella calzoleria del padre, proverà a scardinare il sistema dall’interno: prima adoperandosi per rinnovare il negozio e poi maritandosi a soli 16 anni con una delle personalità più eminenti del quartiere: Stefano, il padrone della ricca salumeria ricevuta in eredità dal padre Don Achille, il camorrista del rione morto ammazzato a coltellate, anni prima. Entrambe le ragazze si confrontano con un ambiente maschile, sanguigno, violento, inadatto al mondo femminile. La violenza fisica e verbale fa da padrona, tra bulli di quartiere e padri maneschi. Le madri sono creature stremate, invecchiate precocemente, vittime delle botte degli uomini, della povertà e delle gravidanze. 

Quindi, oltre che un romanzo di formazione, abbiamo a che fare con un romanzo popolare? Anche. Perché l’attenzione da dedicare ai comprimari e ai personaggi minori è massima da parte dell’autrice e deve esserlo anche da quella del lettore, al fine di mantenere evidente una coralità di fondo che non deve prescindere la fruizione del testo, malgrado la difficoltà iniziale nel seguire vicende familiari complesse e spesso solo accennate (ndr: come nelle commedia, per altro, l’elenco dei personaggi con relative indicazioni di parentela è affisso in prima pagina – non dimentichiamocene). Il quartiere è un non-luogo, quasi un acquario di pesci tropicali che l’autrice osserva in maniera sistematica, con rigore scientifico (nella più pura tradizione “verista” – vien quasi da dire, visto che non si tratta certo di un romanzo “a tesi e dimostrazione” di una qualche ideologia) attraverso gli occhi di Elena: un mondo di uomini visto con gli occhi delle donne. 
Per descrivere quello che le circonda c’è necessità “soltanto” di una lingua secca, puntuale, che tuttavia dia spazio anche all’insondabile, all’immaginifico e al metaforico. Non c’è bisogno invece di strumenti a effetto: non occorre, per esempio, un’eccessiva contestualizzazione storica che spesso non aiuta le narrazioni di genere (troviamo al limite qualche accenno utile all’economia della narrazione: la “millecento”, il televisore…) come non occorre neppure un uso sistematico del dialetto, che viene spolverato raramente solo ove sia strettamente necessario sottolineare la violenza dell’azione che spesso va di pari passo, nel rione, a quella della lingua; dialetto che si preferisce inserire all’interno della narrazione quasi sempre filtrato dall’orecchio appuntito di Elena: “lo disse in dialetto” / “gli gridò in dialetto”. 

D’altra parte, fastidioso o meno che sia, siamo nelle mani dell’autrice e lì rimarremo. Il punto di vista è sempre parziale: Elena, protagonista e insieme voce narrante, per altro lungi dall’apparire quello che per certi versi è, ossia onnisciente dato che la narrazione procede in flashback, ci affida una narrazione “minuto per minuto” accuratamente denudata di qualsiasi riferimento al “dopo”, in maniera tale da lasciare Raffaella, le sue gioie, le sue paure, i suoi progetti, nell’ombra del non-detto e del non-conosciuto. Questa, e diverse altre questioni, differenzia a parer nostro “L’Amica Geniale” di EFerrante da “Acciaio” di SAvallone, a cui, per tematica e struttura è spesso accostato (ne abbiamo parlato anche noi, qui). 

Una nota a margine: la rassegna stampa su quest’ultimo lavoro di EFerrante è corposa, potete trovarla sul sito dell’editore, accuratamente archiviata (qui). A noi – parere personale - le note e le recensioni apparse sui “litblog” sono sembrate molto vive e passionali, indipendentemente dal giudizio espresso sull’opera, forse molto più vive e passionali di quelle pubblicate dalla stampa tradizionale che talvolta risente, sempre a nostro parere, di un approccio critico molto marcato (anche qui, contano entrambi i giudizi in merito all'opera). E’ questione che in questo caso ci è parso che proprio dal litblog sia riuscito a trapelare il Lettore: quello vero, che arde nell’animo, bruciante di una passione che, proprio perché vera, lascia spazio a una critica del testo spesso molto competente
Curioso che sia il popolo dei litblog quello anche meno interessato all’identità misteriosa di Elena Ferrante. Se da parte della stampa tradizionale si rivela qualche volta un interesse pungente, a metà strada tra il gioco letterario dell’“indovina chi” e uno spirito un po’ voyeur che si manifesta con un vaglio a nastro di ipotesi probabili e meno (Fabrizia Ramondino, Goffredo Fofi perché consulente di E/O e intervistatore della Ferrante, Domenico Starnone by himself o in copia con la moglie Anita Raia, consulente editoriale di professione, etcetc…) una parte cospicua dei litblog o comunque delle opinioni espresse on line dai lettori celebra invece la vittoria dell’opera letteraria sull’autore del testo. Che rimane il proprietario intellettuale dell’opera ma che, attraverso la rinuncia consapevole alla celebrazione mediatica di se stesso, opera uno scambio che ha il sapore del passato (quando le copertine dei libri erano tutte dello stesso colore e i nomi degli autori spesso “soltanto” nomi o al massimo firme sui giornali) ma che forse sarà la chiave anche per una rivoluzione futura dell’editoria: porre il lettore, di nuovo, al centro dell’interesse di tutta la filiera editoriale

Buona lettura :)

giovedì 20 settembre 2012

"Il Sostituto", di Brenna Yovanoff


More about Il sostituto Strizzando l’occhio a opere letterarie e cinematografiche ormai parte dei classici del genere, da Tim Burton ("La Sposa Cadavere", "Nightmare before Christmas", "Edward Mani di Forbice", per citarne solo alcuni) a Neil Gaiman (uno su tutti, "Coraline"), Brenna Yovanoff costruisce un thriller gotico dalle atmosfere dense, affiancando uno stile narrativo fluido, equilibrato ed incisivo - a cui deve di necessità adeguarsi ogni opera letteraria che al Young Adult di matrice gothic-horror si ispiri - ad una caratterizzazione iconografica dei protagonisti e del paesaggio così forte e particolare tanto da rasentare quasi l’espressione artistica più pura del fumetto black&white. 

Mackie Doyle, il sedicenne protagonista della vicenda, vive a Gentry, una cittadina della provincia americana creata ad arte dall’autrice eppure così reale e viva nell’immaginazione di ognuno di noi: l'onnipresente Highschool, la piccola chiesa fulcro della vita spirituale del paese, i luoghi di ritrovo dei teenagers - dal parco in disuso, tra altalene sbreccate e immondizia varia, al vecchio teatro polveroso chiuso da anni e poi riadattato, forse dai giovani stessi, in un tripudio di anarchia ed autogestione, a luogo adibito alla musica rock e punk, che tanta parte avrà, per titoli citati e sonorità ben definite, nello svolgersi del romanzo. 

Non manca neppure, accennata in un soffio ma ben presente nell’economia dell’opera (come dire, esce dalla porta ma rientra dalla finestra), l’attualità della crisi finanziaria, fatta di piccole cittadine di provincia rese fatiscenti dalla depressione economica e industrie primarie abbandonate al proprio triste destino – quasi delle Chernobyl moderne, tra mucchi di scorie lasciate morire al sole e dipendenti pronti a tutto pur di recuperare quel poco di dignità, e di sicurezza economica, che la fabbrica aveva garantito. 

Il mondo di Mackie è il tipico universo YA fatto di prom, feste, amici, rivalità tra i banchi e i vassoi della mensa scolastica, reginette di provincia elette al ballo di fine anno ed esclusi di turno. Eppure, “Il Sostituto” è un fantasy. “Ma senza vampiri assetati, angeli caduti o stucchevoli fatine” (SColombo *). 

La parte soprannaturale c’è, eccome, ma viene tutta costruita, con un’abilità leggera e all’apparenza senza sforzo che si merita davvero l’aggettivo di “innovativo” (o forse, al contrario, siamo di fronte a un “back to basics”? Il dubbio ci assale), al di là della dicotomia standard belli, buoni e coraggiosi / brutti, cattivi e codardi. Perché nessuno, a Gentry, è quello che sembra. Mackie è un adolescente allampanato il cui passatempo preferito è fare il possibile per rendersi invisibile agli occhi degli altri studenti e dei concittadini. Impegno massimo, come da copione – e poi capirete il perché – ma, come ovvio, risultato nullo. Gli fanno da spalla la sorella Emma, uno dei personaggi più riusciti del romanzo per complessità e coerenza narrativa, l’amico fidato Roswell e i due fratelli Corbett, gemelli dai modi inquietanti che nel tempo libero si dedicano alla costruzione di strani oggetti e meccanismi che evocano con non poca enfasi e rigore il più puro genere steampunk. Quest’armata Brancaleone, fatta di persone che vivono sopra, ha come corrispettivo una sarabanda di creature magiche e demoniache - di età immemorabile ma dall’aspetto spesso bambinesco o al massimo adolescenziale - che abitano il sotto, tra tumuli di vecchie discariche tossiche, tombe sconsacrate e cunicoli invasi dall’acqua e dal trascorrere del tempo. 

Come accade nella "Sposa Cadavere", in "Coraline" ma anche nella più classica e datata favola di Biancaneve, non sempre l’aspetto fisico è specchio dei moti interiori dell’animo. Tanto che i civilissimi abitanti di Gentry – la parte adulta della società con cui i giovani si misurano quotidianamente (tra i quali spicca il pastore della chiesa, nonché padre di Mackie) – paiono accettare di buon grado che una volta all’anno, nella notte di Ognissanti, gli spiriti più violenti e ancestrali che popolano un altro sotto escano dai propri lugubri nascondigli per partecipare ad un rito cruento di espiazione: il sacrificio di un bambino, rapito dalla culla, sostituito con una creatura del sottosuolo e offerto in tributo. Già, perché come ce ne sono due, di sopra, così ce ne sono due, anche di sotto. E quello che fa più paura è proprio questo secondo sotto: più “adulto”, più perfetto nel suo orrore, popolato da creature evanescenti nella loro bellezza di anime perdute nel sangue e nell’eternità. 
In mezzo a tutto questo equilibrio precario sta Mackie, che per nascita dovrebbe stare da una parte ma per affetti dall’altra, e che tenterà, senza particolari prove di coraggio o poteri straordinari ma soltanto attraverso quel che ha di più prezioso, l’amore per i suoi cari e l’affetto per il mondo che lo circonda (sia sopra sia sotto), di rimarginare una ferita infetta, rimasta aperta da troppo tempo. (Il melodramma sentimentale comunque - altro pregio dell’opera – è sapientemente evitato grazie alle solide virate splatter che strappano al lettore puri brividi di orrore genuino, a metà strada tra la repulsione e il “guilty pleasure”). 

Tutto, nel romanzo di Brenna Yovanoff è, come dire, sostituito e nulla occupa il posto che, a rigore, dovrebbe. Come accade per la matrigna di Biancaneve, sovrana bellissima ma crudele nell’animo, o la casa di pan di zenzero della strega cattiva di Hansel e Gretel, o come i genitori-allo-specchio che Coraline inconsciamente desidera e che poi si trasformano in (no, meglio, si rivelano essere) marionette mostruose dagli occhi a bottoni e denti affilati. O come la Sposa Cadavere, che nel suo orrore di carne putrefatta, ossa sporgenti e bulbi oculari alla deriva dimostrerà un’umanità molto superiore a quella propria dei vivi. 

Un interessante articolo di Severino Colombo (i virgolettati * gli appartengono) apparso su @La_Lettura di qualche settimana fa (qui, dal sito della casa editrice) ha avuto il merito di farci conoscere Brenna Yovanoff e il suo romanzo di esordio. Affascinante già dalla copertina: un’immagine studiata e lavorata nei dettagli che per una volta ci libera da quei tratti romance così cari oramai alla narrativa YA (e che spesso hanno poco a che fare con il contenuto dell’opera) per riportarci, anche visivamente, ad un sentimento coinvolgente di inquietudine e timore, che ci aiuta ad apprezzare emotivamente il testo e a mantenere costante la tensione e il giusto ritmo di lettura. 
Peccato per un paio di refusi di troppo.

Buona lettura :)

sabato 8 settembre 2012

"Nel Giappone delle donne", di Antonietta Pastore - "Il coperchio del mare", di Banana Yoshimoto


More about Nel Giappone delle donne More about Il coperchio del mare Antonietta Pastore, studi in pedagogia e docente universitaria, attraverso la sua personale esperienza di expatried, durata quasi 20 anni, con delicatezza ed estrema competenza ci racconta in punta di piedi l’universo femminile giapponese: dall’adolescenza al matrimonio, dall’educazione dei figli alla vecchiaia, passando per lavoro, tradizione e femminismo. 

Scopriremo cos’è un omiai e perché non sia soltanto visto di buon occhio dalle famiglie ma addirittura richiesto dalle giovani giapponesi (50%) che dopo una certa età (ndr 26.7 anni, di media) corrono verso il matrimonio, d’amore o di convenienza che sia, semplicemente perché terrorizzate dall’idea di entrare a far parte della ormai folta schiera delle parasaito shinguru (ove shinguro sta per “zitella” e parasaito… beh, per “parassita”), perché l’obiettivo perseguito “non è il lieto fine ma l’interesse del gruppo” (p28). 
Attraverso la testimonianza di giovani spose e mature madri di famiglia scandaglieremo il misterioso, conflittuale rapporto tra la nuora e la spesso tirannica suocera a cui la giovane sposa deve obbedienza cieca e assoluta e che di frequente, se il figlio sposato è il primogenito, viene accolta in casa quando anziana e non più autosufficiente, nell’ottica di una relazione coniugale definita all’insegna dei più rigidi canoni tradizionali: l’uomo guadagna per la famiglia, la donna bada ai figli e alla casa. 
“Fin da bambina alla donna giapponese viene inculcato che la pazienza e il sacrificio di sé sono, più che un dovere della donna, l’essenza stessa della femminilità” (p38). Remissività, abitudine a servire il marito, che le mogli non chiamano per nome ma con un anonimo anata (tipo il vous francese) stesso pronome che viene utilizzato per interloquire con un collega sul lavoro; marito da cui sono apostrofate con un banale kimi (“tu”) o peggio ancora con un bell’ohi! “che non ha bisogno di traduzioni” (p38). 

E non potremo non stupirci, di fronte al potere autoritario della donna, in special modo quello che deriva dalla capacità di negoziazione interna ed esterna alla famiglia, tipico e specifico della donna giapponese. Donne che scattano in piedi se il marito ordina una birra ma che amministrano in completa autonomia tutte le finanze di casa, poche o molte che siano: dall’acquisto dei mutandoni di lana per tutti i membri maschi della famiglia, alla gestione di un esercizio commerciale, alla pianificazione delle spese. Direttamente responsabili del vitto quotidiano, finanche all’acquisto di beni mobili e immobili, non esitano a redarguire aspramente il consorte nel momento in cui osi accendersi una sigaretta in casa o uscire senza il cappotto, per poi riferirsi a lui, in presenza di terze parti, con il termine shujin (“il mio padrone”), malgrado la lingua abbia a disposizione anche otto, medesimo significato privato però dell’idea della sottomissione. Regine dell’economia domestica e target goloso del marketing più sfrenato, sono sempre impegnate nell’attività principe della donna nipponica: quella del maru maru, “del tondo tondo” (p49), ossia “mantenere la pace e l’armonia”; quando non accettino per sé addirittura il ruolo di kyoiku mama, ossia una madre che fa dell’educazione e della riuscita scolastica dei figli l’unico scopo della sua vita. 

Parleremo dei movimenti femministi, che pure ci sono stati e ci sono tuttora, frutto dell’occidentalizzazione di massa, ma che tuttavia hanno modificato solamente gli aspetti esteriori della società giapponese, grazie anche a innegabili vantaggi pratici (elettrodomestici, abiti comodi, tecnologia – pena la perdita di tradizioni raffinate e millenarie) ma non certo quelli più profondi, in un’orgia di risultati di dubbio gusto e scarsa utilità sul lungo periodo. 

Dall’analisi delle complesse tematiche familiari viene di conseguenza quella sulla vita della donna fuori casa: giovane o anziana che sia, non può esimersi dalla cura della casa e della prole (l’utilizzo di una otetsudai-san, la domestica, è socialmente concesso e accettato solo nel caso di famiglie molto facoltose) e quindi, ove scelga di portare avanti un’attività lavorativa, si tratta per forza di scelte professionali dalle caratteristiche ben specifiche. Ci inoltreremo quindi nel sottobosco multistratificato delle occupazioni professionali dedicate tipicamente al mondo femminile. Faremo la conoscenza delle tipiche Office Ladies, l’esercito delle segretarie che affollano qualsiasi multinazionale nipponica; ragazze spensierate, buona famiglia, buona istruzione, buono stipendio che viene per la maggior parte speso in accessori alla moda o viaggi all’estero. Comprenderemo un po’ meglio i delicati meccanismi di selezione e di accesso al mondo professionale (che spesso prendono il via dalla scuola elementare): divisi in due categorie, quelli con possibilità di carriera e quelli senza, ambiscono sulla carta alle agognate pari opportunità ma poi, nella pratica, non fanno altro che accelerare l’ascesa del lavoratore maschio a scapito della donna che normalmente, dato il suo impegno in famiglia, una volta sposata non potrà consacrare tutta se stessa alla ditta e al lavoro. E infine scenderemo nel mondo sommerso dei mizu shobai, i negozi "dell'acqua", tra mama-san, hostess, entraineuses, pink parlour, fino ai famigerati toruko (“bagni turchi”, poi per ovvie ragioni ribattezzati col più politically correct soapland) passando addirittura dai no-pants kissa. Con buona pace della geisha che per secoli ha incantato oriente e occidente con la sua cultura, la sua grazia e il suo mistero. 

Ad integrazione di questo competente e appassionante saggio vorremmo consigliarvi una delle numerose opere di Banana Yoshimoto, di cui vi lasciamo qualche stralcio. Racconto lungo per altro adatto all’occasione, giacché nell’opera si parla, tra l’altro, di quella dolcezza un po’ malinconica che precede l’arrivo dell’autunno nelle cittadine turistiche di una costa nipponica che potrebbe ben assomigliare ad una qualunque delle nostre spiagge tirreniche. La trama è scarna, semplice: Mari, appena laureata, torna nel suo paese di origine decisa ad aprire una piccola attività commerciale, un chiosco di granite. Assieme a lei arriva inaspettata un’amica di famiglia, Hajime, provata da da un grave lutto: la perdita dell’amata nonna che viveva in famiglia. Le due coetanee trascorreranno insieme l’estate, per poi separarsi al principio dell’autunno. 

(…) ero felice all’idea che non dovevo fare niente di strepitoso. L’unica cosa che mi era concessa era prendermi cura, riempiendolo di fiori, del piccolo vaso che portavo dentro di me. Di certo non potevo credere di cambiare il mondo con le mie idee. Dovevo solo essere me stessa, una persona in grado di godersi la vita. (…) L’unica cosa che dovevo fare era arrivare alla morte dopo aver trascorso una vita a contemplare le cose belle del creato, tenendomi alla larga da ciò che mi avrebbe costretta a distogliere lo sguardo. (p. 63) 

(…) per la verità mi chiedo perché gli uomini vadano continuamente alla ricerca di cose sempre più complicate, sempre più oscure” (…). Gli uomini si spingono sempre più lontano, in posti estremamente tristi, oscuri e remoti. E lo fanno di loro libera iniziativa. Forse sentono la necessità di vedere le cose più in profondità, oppure è la razza umana che è fatta così. (p.70) 

Io a volte penso che non sia colpa loro, che sono fatti così. Mentre gli uomini si addentrano nei loro mondi bui e tristi, noi donne cerchiamo sempre di accendere una piccola luce nella vita di tutti i giorni. Le ruote della vita cominciano a girare solo se succedono entrambe le cose (...). Suppongo ci siano anche donne capaci di lavorare fino al tracollo, stacanoviste che vanno in profondità nelle cose esaurendo tutta l’energia fisica che hanno a disposizione, di solito, però, c’è qualcosa che ci ferma prima, no? A noi piacciono le zone d’ombra, preferiamo mangiare qualcosa di buono e farci una bella dormita, consapevoli che subito arriva un nuovo giorno. Sono davvero convinta che, fondamentalmente, ci siano delle piccole differenze nei ruoli dell’uomo e della donna. Il fatto che i nostri corpi siano diversi significa che anche i nostri ruoli sono in qualche modo diversi. Di sicuro gli uomini riescono a fare anche cose estreme, perché hanno un posto dove tornare. Che sia dalla moglie o dalla madre, non importa. Possono continuare a esplorare i loro mondi, possono anche andare nello spazio, solo perché sono legati a questa corda di salvataggio (…). Noi siamo fatte in modo che ci bastano i piccoli piaceri della vita quotidiana per andare avanti. (p. 70-72) 

Le cose avvengono proprio nel momento in cui stai per convincerti che non ci sia più niente da fare. Se, invece, aguzzi l’ingegno senza darti per vinto, la soluzione arriva all’improvviso, da un luogo del tutto inaspettato, sotto una forma quasi ridicola. (p. 77-78) 

C’era una cosa che mia mamma mi diceva spesso: “Le persone non vogliono soffrire né tantomeno vivere nel terrore, desiderano soltanto essere felici. Siamo tutti fatti così, per cui se ti rendi conto che un tuo comportamento potrebbe ferire qualcuno, devi modificarlo”. (p.58) 

Come a dire, la teoria e la pratica delle cose. 
Buone letture :) 

venerdì 17 agosto 2012

"Estate al lago", di Alberto Vigevani

More about Estate al lago Molti personaggi illustri hanno scritto di Alberto Vigevani, quindi non possiamo fare altro che lasciar loro la parola. 


Un poeta che scriveva romanzi”, come lo ricorda Lalla Romano il giorno successivo alla sua scomparsa (23 Febbraio 1999), dalle pagine del Corriere. “Il mio amore di sempre per i libri di Alberto, così sapientemente e con affettuosa ironia lombardi, anzi milanesi (…) pensiero grandioso, con racconti pieni di umanità e modestia”. 

Scrittore, poeta, libraio antiquario ed editore, amico dei critici e degli autori più noti del suo tempo” lo racconta Paolo Di Stefano citando, tra gli amici e i colleghi, Sereni, Treccani, Strehler, Pampaloni, e tra i suoi critici Bassani, Calvino e Dionisotti che Di Stefano cita: 
Carlo Dionisotti nel '76 si diceva entusiasta dell' Estate al lago, collocandolo «sotto il segno di una moderna e nostra classicità»: «Leggendolo, ho avuto la commovente illusione che quella civiltà letteraria europea dei miei anni giovanili, fra l' una e l' altra guerra, non fosse scomparsa del tutto»” 

Addio ad Alberto Vigevani. Cantò il cuore della vecchia Milano” scrive Guido Vergani sempre sul Corriere, e sempre a seguito della sua scomparsa, continuando così: “Apparteneva a una Milano ormai sepolta, quella intellettualmente e ideologicamente nobile di "Corrente", di Raffaele Mattioli, il banchiere - editore, di Adolfo Tino, di Vittorio Sereni, di Antonello Gerbi, di Sergio Solmi, di Riccardo Bacchelli. Dal "Demetrio Pianelli" di Emilio De Marchi, la narrativa italiana non e' stata prodiga di storie milanesi. Non si fatica a ricordare e non si rischia di dimenticare: "L' incendio di via Keplero" di Gadda, "Il ponte della Ghisolfa" e "Il dio di Roserio" di Giovanni Testori, "La vita agra" di Luciano Bianciardi, "Un amore" di Dino Buzzati. A questo scaffale, Vigevani ha dato libri che meritano di starci e che resteranno a testimonianza del vivere e del sentire di una societa' , di una citta' negli anni dell' armonia, del male ideologico, della mediocrita' vile e accomodante, dell' inferno e, poi, della speranza. Sono pagine intrise di Milano, hanno, fra letteratura e cosa vista, fra romanzo ed elzeviro, colori, strade, personaggi, sentimenti milanesi. Per questo, Milano ha in lui il "suo" narratore. In questo, Vigevani e' lo scrittore piu' milanese dell' ultimo mezzo secolo (…). Milano, nella fatica letteraria di Vigevani, non e' solo spunto per prose d' arte. I romanzi, i racconti biografici liquidano l' idea che la sua milanesita' narrativa sia solo elzeviristica: una misura di sapiente, controllatissima scrittura che lo apparenterebbe agli scapigliati Gian Pietro Lucini e Carlo Dossi, a Raffaele Calzini, a Carlo Linati, a Piero Chiara di "Vita a Milano", ad Alberto Arbasino di certe pagine de "Piccole vacanze". Anche se il suo sangue, il suo sentimento, la sua appartenenza alla citta' si fossero espressi solo in questa forma e "gittata", in questo respiro breve, chi potrebbe negargli un posto alla ribalta della letteratura milanese? Ma tale diritto e' alimentato dallo sfondo, dalla materia, dall' impasto totalmente milanesi del suo narrare piu' disteso e vasto” 

Estate al lago” in edizione Sellerio (la prima è di Feltrinelli, 1958) ci è capitato in mano per caso, scovato sul bancone di un mercatino dell'usato. Come per caso sono nate le immagini attraverso cui abbiamo cercato di descrivere l'opera.

"L'anno che compì i quattordici andarono in villeggiatura a Menaggio,
sul lago di Como, per seguire dei parenti che avevano figliuoli vicini alla sua età
e a quella dei fratelli. La delusione di non tornare al mare lasciò il posto alla curiosità per i nuovi paesi,
al pensiero che vi avrebbe ugualmente trovato l'acqua e le barche" (pag.21)

"Dalle cancellate si intravedevano i giardini del lungolago, trapunti dai colori delicati
delle aiuole fiorite, folti d'alberi esotici, di piante centenarie che sporgevano i rami sulla strada" (pag.22)


"Gi pareva di tenere il capo di un capriccioso aquilone che per un istante,
nascosto dal tetto di una casa, da un crocchio di piante,
nemmeno si sa dove voglia dirigersi. Poi, nel giardino, le siepi,
le finestre aperte sulle stanze, gli parvero un labirinto di prospettive, e, quando le udì,
di voci che avrebbero potuto strapparlo dalla contemplazione di ciò che stava nascendo,
e nemmeno voleva approfondire" (pag.69)

Dalla nota di G Pampaloni in coda al volume:

“(Estate al lago) è, tutto insieme, racconto d'ambiente, memoria di adolescenza, racconto d'amore, storia di un'educazione sentimentale (…). Il fascino del racconto sta nel timbro, malinconico e un po' assorto; una malinconia che nasce da una necessità lirica e si vela di un arcano colore del destino. Il mondo che ci descrive è quello consueto allo scrittore, il mondo della borghesia liberale milanese, moderna, illuminata, e pur sempre legata al solido decoro ottocentesco: la lunga villeggiatura della famiglia di una avvocato, le quiete ville sulle rive del lago di Como, nascoste dal verde agli sguardi indiscreti, l'agio senza sussulti apparenti degi anni tra le due guerre (…). Giacomo, ragazzo solitario e scontroso, confuso nell'etaò acerba degli ultimi calzoni corti, è infelice; ma il suo problema non è la felicità, è la vita (…). Questo mi pare il tratto originale del personaggio (e del libro): la perdita dell'innocenza, momento fatale di ogni adolescenza, si trasforma, come in dissolvenza, nella consapevolezza della complessità dell'amore con tutto ciò che di ambiguo, di doloroso, ma anche di certo e, in qualche senso, di supremo, tale consapevolezza porta con sè” (p137-138). 

Buona lettura :)

Bibliografia essenziale:

lunedì 6 agosto 2012

"Vietato giocare con la palla", di Antonio Steffenoni


More about Vietato giocare con la pallaLe notti di agosto, a Milano, sono bugiarde e interminabili, rinfrescate da qualche scampolo di vento prealpino che coraggioso scende a valle quando cala la sera; sono piene di buoni propositi e progetti per il giorno a venire (lontano o vicino) che poi però, alla luce di un’alba già rovente, naufragano nel mare delle illusioni impigrite. 

“Vietato giocare alla palla” si inserisce perfettamente, per tematica e struttura, nel ricco filone noir della narrativa gialla milanese. Il Commissario Ernesto Campos, di padre spagnolo emigrato in Italia per amore, viene richiamato dalle ferie per risolvere un’indagine spinosa: una carneficina famigliare, cinque persone barbaramente trucidate a colpi di arma da fuoco, nessuna arma del delitto e un unico superstite, per altro sospettato, in fuga. 

Come a dimostrare che ogni opera letteraria tende, se non forzata, a prendere la strada che più gli è consona, abbiamo atteso molto tempo per affrontare questo romanzo che non è una novità recente nel panorama delle uscite di genere (la prima uscita è datata addirittura 2008). Questo perché non si tratta, semplicemente, di un romanzo giallo. Certo, ve ne sono espresse al meglio tutte le caratteristiche: un delitto efferato a cui segue un'indagine di difficile risoluzione, una squadra di protagonisti appartenenti alle forze dell’ordine ben assortita e delineata nei dettagli, capitanata da un leader sicuramente di spicco, né convenzionale né immune alle proprie, personali debolezze; uno stile narrativo che si destreggia abilmente, attraverso una trama tesa e lineare, tra le parti prettamente descrittive e quelle dialogate, fondamentali per lo sviluppo della vicenda; una contestualizzazione geografica e temporale precisa e ben calibrata. 

Avevamo bisogno di riscontri oggettivi – per quanto oggettiva possa essere ogni percezione personale - di immagini e rifrazioni di luce

Bisogno di vivere anche noi, come il Commissario Campos, quel tempo sospeso delle ferie in città, fatto di buoni propositi (i 4327 libri del Commissario, che riposano chiusi in decine di scatoloni – tutti rigorosamente sistemati ed etichettati in ordine alfabetico – e che il protagonista ha il proposito di sistemare nella libreria di casa, utilizzando parte della licenza estiva), di tempo dilatato e immobile, aria rovente e sole a picco sull’asfalto molle e quasi liquefatto e notti – appunto – un po’ bugiarde e interminabili. Così ce la siamo girata quasi tutta, la Milano di Ernesto Campos (e ne abbiamo fatto pure qualche twitt, in rigoroso ordine sparso).

Dalla circonvallazione interna ai casermoni di cemento della periferia nord, passando per le spiagge affollate del Lido fino ai tavolini di una Brera assopita sotto il sole di agosto, abbiamo affrontato quasi una discesa agli inferi casalinga, a metà tra un Cuore di Tenebra postmoderno e un’inedita avventura Marcovaldiana. Perché “Vietato giocare alla palla” è anche, e soprattutto questo: una personale indagine introspettiva che partendo dall’inquietudine personale del protagonista raggiunge inevitabilmente anche il lettore. Così, mentre il Commissario Campos si trova a fare i conti non solo con l’assassino impunito di una strage efferata e all’apparenza senza logica ma anche con i propri demoni personali che il delitto fa potentemente riemergere (un episodio drammatico del passato e un senso di colpa mai sopito), necessariamente il lettore finisce per interrogarsi anche su di sé. 

"I casamenti che fiancheggiavano il rettilineo di Melchiorre Gioia
avevano per lo più le persiane chiuse" (p10) 

"Anche Via Cagliero sembrava far parte di una città abbandonata; le tapparelle abbassate
punteggiavano di nero  i grandi palazzi che la stringevano sui due lati" (pp 32-33)

“Vietato giocare alla palla” è un romanzo sul castigo e sul perdono, sui cambiamenti nei rapporti d’amore e sul senso di responsabilità rispetto al quale non riusciamo quasi mai a confrontarci con equilibrio: talvolta gli sfuggiamo, nella convinzione che ad esso sia possibile sottrarsi per sempre solo per il semplice fatto di continuare a ignorarlo; talvolta invece ce ne sobbarchiamo solo gli oneri in un gioco perverso di ricatti affettivi, inutili rinunce e speranze mal riposte.
Il senso di colpa di Campos proprio perché mai risolto inquina la quotidianità del protagonista, relegando i suoi rapporti personali, specificamente quello profondo ma altalenante con la fidanzata Marzia, dentro un limbo fangoso di cose non dette, questioni lasciate in sospeso e decisioni procrastinate all’infinito.

E' un attimo unico, particolare, uno di quei rari istanti in cui per talento e intuito il fotografo riesce a scattare un’unica istantanea, il momento esatto in cui una vita cambia direzione.

Nota a margine: potete trovare qui una vasta galleria dei bellissimi lavori "Hopperiani" di Gianni Maiotti, autore dell'immagine in copertina e illustratore della maggior parte delle cover della collana "Il mio tempo" di Carte Scoperte.

Buona lettura :)