Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

mercoledì 27 ottobre 2010

Consigli per la lettura numero 3: “Yo-oh-oh e una bottiglia di rum”. Parte prima.

Nota a margine: pieno diritto del lettore quello di saltare l’introduzione personale alla questione (esageratamente prolissa).
Per farlo, si clicchi qui: “non ci interessa il background” e andrete direttamente all’analisi di quel che vogliamo proporvi.

La storia inizia qui, da una credenza di poco conto abbandonata nel garage. Twitterando, Del Demone Celeste, ovvero, quel che, da leggere, ti capita tra le mani per caso, come un TESORO di pirati nascosto in una vecchia cassa umida e polverosa.

Una vecchia parente, acquisita da parte di cognato materno e passata a miglior vita oramai un decennio fa, di famiglia ricca e di origine avvocatesca, aveva la fissa per i club di lettura, che frequentò con soddisfazione e gloria personale dagli 82 ai 101 (perché dai 50 agli 80 si era dedicata con sfarzo ad altre attività ludiche, quali gite in montagna, sci di fondo, scampagnate domenicali in collina, decoupage, ikebana, cucina etnica e, last but not least, collezione di opere d’arte pittorica).
Si diceva. Assieme a giovani pulzelle tali quali a lei si ritrovava, una volta a settimana, a casa dell’una o dell’altra, un pomeriggio di tè e vassoi di confectioneries serviti dalla domestica, per commentare i libri assegnati e letti di volta in volta.
Di tutto questo fulgore di cristalli e tintinnii di preziosi alle orecchie, a noi, parenti lontani non è rimasto – e non è mai pervenuto altro, né ante, né post mortem, – che qualche scatolone pieno zeppo di libri.
Magra eredità, si potrebbe pensare. E invece no, e ora vi spiego il perché.
In parte si trattava di libri usati, che una parente di mia mamma era solita prendere a prestito dalla libreria per dare senso a interminabili e noiosissimi pomeriggi estivi che si trovava a condividere con la signora in questione, la governante straniera e i nipoti piccoli (che i vari fratelli usavano lasciare a balia per l’estate) nella famosa casa di campagna di cui la signora era proprietaria.
La signora, di memoria lieve e portafoglio ampio, si curava poco dei suoi possessi letterari e quindi – a meno che non si stesse parlando di edizioni di vero pregio artistico – lasciava che i suoi volumi circolassero liberamente tra parenti, nipoti e appartamenti, più per vaghezza che per filantropia.
Di conseguenza, molte delle sue letture hanno condiviso il destino dei libri prestati e più restituiti, un bookcrossing ante litteram di pagine scambiate, lette, ricordate e poi dimenticate.
Per il resto, si trattava di libri nuovi, tutti regali per le feste di Natale, i compleanni e gli anniversari, consigli per letture di nicchia, poco commerciali, che venivano direttamente dal famigerato club di nonnine chic.
Saggi di arte figurativa, scrittori del nord Europa, all’epoca veramente di avanguardia, design anni ’70.

Sarà, ma io li ricordo con affetto, quei volumi che hanno popolato la mia giovinezza. Parlo soprattutto dei “reminders”. Gli Adelphi colorati di confetto; i Sellerio, con la copertina di carta lavorata, impreziosita da misteriose illustrazioni lisce lisce.
Volumi letti, senza dubbio, ma sempre in ottimo stato, ché la signora non amava la piegatura della costa e le orecchie a modo di segnalibro. E, su tutto, un leggero profumo di borotalco di lavanda. E le note a margine.
Come le adoravo, quelle note.
Al principio, subito in prima pagina, nome, luogo e data, in alto a sinistra, una penna nera dalla mina sottilissima, sempre, per un tratto piccolo e discreto. E poi, quando meno te lo aspettavi, una nota a margine, perduta tra le pagine. Un asterisco, un puntino ricamato più volte, un “vedi pagina”, un punto esclamativo.

Tutto questo per dirvi che “Il canto dell’equipaggio” (Pierre Mac Orlan, Sellerio 1996, a cura di Ispano Roventi) l’ho trovato nel garage della sorella di mamma, in una credenza classe 1970, spostata e aperta per caso. Benché il volume, questa volta, non rechi con sé alcun segno di riconoscimento, sono quasi certa della sua origine, perché, a naso esperto, porta ancora un vago, vaghissimo sentore di lavanda.
E siccome a libro capitato per le mani, come dice il demone Celeste, non si rinuncia, eccoci qui.

Consigli per la lettura numero 3: “Yo-oh-oh e una bottiglia di rum”. Nota a margine

Consigli per la lettura numero 3: “Yo-oh-oh e una bottiglia di rum”. Parte seconda.

Allora. Con “L’isola del tesoro” ci cresci. Con “La vera storia del pirata Long John Silver”, ci rifletti sopra. Con “Moby Dick”, prima ci cresci (sudandoci sopra, sempre se riesci a finirlo alla prima lettura, questione non scontata), poi, a seconda lettura, a decenni di distanza, ti perdi via con l’illuminazione esistenziale. L’ “Odissea” ti trascina in uno zibaldone di questioni irrisolte, dalla filologia classica alla filosofia arcaica.
Se poi ci aggiungi anche “Robinson Crusoe”, fino ad arrivare al Tom Hanks di “Cast away”, allora non puoi più uscirne.
Con “Il canto dell’equipaggio” (Pierre Mac Orlan, 1996 Sellerio - curatore Ispano Roventi *) scopri qualcosa che ti pareva di aver perduto per sempre (e della perdita, non è che proprio te ne fossi reso così conto, così come un profumo che ricordi di aver dimenticato solo quando lo senti di nuovo).

E’ il trionfo della narrazione ipnotica, di ritmo metrico, una storia di mistero e avventura raccontata così come ce le raccontavano da bambini, con tutti i topoi al loro posto.
  • La presentazione dei personaggi, che giacciono languidi in uno stato di calma apparente ed equilibrio instabile: il buono, il cattivo, l’approfittatore, il tontolone di turno, le spalle comiche e tragiche, le donne scaltre e, a far da contrappunto, le servette sciocchine tutte moine e sorrisi – a noi sono venute in mente le tre sorelle fatte in serie della Bella e La Bestia Disneyana, le ragazze della taverna, intendiamo, quelle del “quantoèbravoGaston/quantoèfurboGaston”;
  • il ritrovamento della mappa e, di seguito, l’introduzione del meraviglioso e del fantastico;
  • la preparazione del Viaggio (le vele, l’equipaggio – il capitano dalla barba rossa, l’uomo senza un braccio o con una benda all’occhio, il mozzo di colore, il “cerusico”);
  • le pietre preziose come merce di scambio, i pugnali e le pistole di contrabbando;
  • gli eden tropicali perduti, terre dai colori sgargianti popolate da animali fantastici e uccelli dal piumaggio dorato, iante ricche di frutti maturi, golosi, e forieri di morte e veleno. Ad uso e consumo del pubblico over 18, gli accenni alle femmine procaci, vestite di nulla, la pelle ambrata dal sole e dal mare; gli aromi intensi dei tabacchi profumati e i giardini di palme ombrose, nascosti tra mura arroventate dal sole dei tropici; descrizioni senza luogo e soprattutto senza tempo, in cui la Storia del mondo (ricordiamo, siamo nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale) non va certo di pari passo con il tempo del romanzo, che ci riporta semmai indietro, a secoli precedenti, come se il Tempo, quello vero, tornasse e refluisse in un pensiero di intima circolarità;
  • e poi, ovviamente, l’Avventura. Con la A maiuscola. Quella immaginata, tracciata a pennarello rosso su fogli di carta a quadretti che la mamma ci aveva bruciato ai bordi, coi fiammiferi della cucina.
E last but not least la lingua, l’argot più profondo e misterioso, proprio quello che usavamo da bambini, quel linguaggio tutto nostro creato ad arte con l’amico del cuore e di avventure, un patto di sangue vòlto ad escludere, a priori, chi del nostro gruppo di pirati non faceva parte.

Vi consigliamo, a fine lettura, il bellissimo saggio che funge da prefazione: “La canzone dell’avventura” di Ispano Roventi. Non abbiamo veramente nulla da aggiungere.

- "L'isola del tesoro", Robert L Stevenson, 2009 BUR
- "La vera storia del pirata Long John Silver", Bjorn Larsson, 1998 Iperborea
- "Moby Dick", H Melville, 2004 Mondadori
- "Robinson Crusoe", D Defoe, 2003 Mondadori


* NB: purtroppo l'immagine della copertina di "Il canto dell'equipaggio" non è disponibile su Anobii. Siccome siamo un po' ligi con i copyrights, non la peschiamo da altre fonti non accreditate.

lunedì 18 ottobre 2010

"Operaie", di Leslie T. Chang (*)

More about Operaie Se con l’amato Rampini affronti un mondo di cifre, numeri, dati tecnici e testimonianze da puro reportage giornalistico (e del Rampini, una volta iniziato, non ne puoi più fare a meno) qui sei nel regno della meraviglia, nel senso più classico del “tutto è possibile”.
E’ un approccio alla Storia che rivela origini e background culturale dell’autrice, che, seppure nata e cresciuta in USA, accoglie in sé (forse senza nemmeno rivelarlo a se stessa) radici e stili letterari propri di un mondo orientale a noi sconosciuto.
La bibliografia, estremamente curata nei dettagli e l’attenzione all’accuratezza delle fonti, tipica dell’inchiesta giornalistica propriamente detta, vanno di pari passo al racconto del magico e della tradizione: il culto per gli antenati, i riti di passaggio - nascita, matrimonio, morte - ancora così vivi nell’ambiente rurale; il ritmo delle stagioni; la vita in comunità, nel villaggio – una quotidianità fatta ancora di stenti, povertà e commistione promiscua di famiglie, parenti, bambini e animali domestici, tutti radunati sotto lo stesso tetto, a condividere un’abitazione fatiscente priva di riscaldamento, acqua calda ed elettricità, e l’incertezza del domani. Commistione ed esperienze a cui l’autrice non si sottrae ma che, anzi, fa proprie attraverso un percorso di immedesimazione e fascinazione sempre più profonda (e per certi versi, inconsapevole) che la porterà alla fine al recupero della propria storia personale.
Partendo dall’esperienza personale (la sua, e quella delle migranti) l’autrice fa propria la visione storica, tutta orientale, del tutto per la parte: l’esperienza individuale, con il trascorrere del Tempo e delle generazioni, perde il suo carattere di unicità e si fa Storia ed espressione non più del singolo individuo, ma di un popolo intero.
Curiosamente, ed è qui forse, l’esempio più evidente di quell’inconsapevolezza di cui parlavamo più sopra, proprio quella mancanza di individualità che l’autrice lamentava nel corso delle sue interviste alla famiglia di origine è ciò che rimane a noi lettori, a conclusione del reportage.
Le storie di Chumming e Min, abbandonate le particolarità intrinseche tipiche del racconto di esperienze individuali, assurgono a Storia del migrante, attraverso i tempi, i modi e le generazioni. La famiglia dell’autrice, vittima delle rivoluzioni, delle epurazioni, della sventura e dell’esilio, non racconta più soltanto la storia di individui specifici, ma la Storia di tutto il popolo cinese.
Il libro delle genealogie, con i suoi dati scarni e vergati a fatica, è testimone di un processo storico impensabile ai nostri occhi occidentali: il respiro di una civiltà millenaria in continua trasformazione; il tutto in parte, il ritorno all’unità Storica attraverso la parcellizzazione del reale.  

(*) Anche noi partecipiamo alla campagna NastroRosa per la prevenzione del tumore al seno!

lunedì 11 ottobre 2010

"Quella sera dorata", di Peter Cameron

More about Quella sera dorata Su richiesta, qualche breve nota in proposito, data la prossima uscita cinematografica. 

Vi consigliamo di avvicinarvi a questa piccola opera fine e delicata non come a un romanzo ma come a una piece teatrale, cui tanto somiglia.
La trama infatti, riassumibile in poche righe, è quasi soltanto un pretesto che fa da sfondo a questa raffinata commedia agrodolce sui sentimenti e sulle relazioni interpersonali.
Il giovane e promettente Omar Razaghi,dottorando all’Università del Kansas, sta affrontando la tesi di laurea: deve stendere la biografia dello scrittore Jules Gund, morto suicida diversi anni prima e autore di un unico capolavoro, La Gondola.
L’Università ha già stanziato i fondi necessari e Omar ha ricevuto un assegno di ricerca, che prevede anche la pubblicazione del saggio; c’è un unico, piccolo problema: la famiglia Gund non ha concesso al ragazzo l’autorizzazione alla pubblicazione della biografia. Omar, per troppa sicurezza e spavalderia, ora si trova in seria difficoltà: l’assegno di ricerca e la borsa di studio sono vincolati alla pubblicazione del lavoro - lavoro che Omar, tuttavia, non ha l’autorizzazione di stendere. Il ragazzo farà quindi ricorso all’unica, disperata soluzione ancora possibile: spinto da Deirdre, fidanzata grintosa ed energica, partirà alla volta dell’Uruguay, dove vive la famiglia Gund, per tentare di strappare agli eredi il consenso alla pubblicazione dello studio.

Questo è ciò di cui veniamo a conoscenza fin dalle prime pagine del romanzo. Il resto, lo verremo a sapere poco a poco: insieme ad Omar, di cui assumiamo il punto di vista, arriveremo a Ochos Rios, bellissima, antica terra di campagna, e incontreremo la bizzarra famiglia Gund: la vedova Caroline, l’amante Arden con la figlioletta Porzia, il fratello dello scrittore, Adam, con il compagno, il giovane Pete.
Omar, interagendo con i diversi personaggi, darà il via ad una serie inarrestabile di eventi, a volte comici, a volte tragici, in una commedia dove davvero nulla è ciò che sembra.
A complicare le cose, l’arrivo inaspettato di Deirdre, un vero tornado che sconvolgerà definitivamente la vita di tutti i personaggi.

Gran parte della narrazione di svolge per episodi, in maniera molto simile al modo in cui scene diverse si alternano all’interno di una rappresentazione teatrale.
Ci sembra quasi di percepire i cambi di scenografia (pochi, e per questo molto significativi: la casa padronale, il giardino, un ristorante, la casa di Adam, l’ospedale), l’ingresso degli attori sul proscenio, o il loro nascondersi dietro le quinte.
Per la prima parte del libro, ambientazione e descrizioni di personaggi e di paesaggi sono lasciate alla nostra immaginazione. Seguiamo solo il punto di vista di Omar: ciò che più è messo in evidenza sono i fatti, le azioni, lo scorrere del tempo e dei giorni. La bellezza di un singolo luogo, quella di una persona. Ciò che colpisce di più l’istinto del ragazzo.
Soltanto con l’arrivo di Deirdre riusciremo finalmente ad avere qualche notizia in più: sarà la ragazza, grande osservatrice, sicura di se’, di intelligenza acuta e pronta, a descriverci – con accuratezza tutta femminile – la villa padronale, l’aspetto delle due donne che la governano e le misteriose dinamiche sottese tra le due, le sfaccettature del carattere di Mr. Adam e del suo compagno.

Dobbiamo prestare attenzione proprio a questa dicotomia, che acquisterà un’importanza sempre maggiore nel corso della narrazione; Omar, nelle prime pagine del libro, si mostra come un giovane di talento certo e arguto, ma indeciso e poco lungimirante.
Ne sono esempi eclatanti la leggerezza nel trattare con l’Università, o la mancanza di chiarezza con la fidanzata, con la quale non si arrischia a pianificare alcun progetto per il futuro, malgrado lei li richieda a gran voce. Impantanato nella sua vita universitaria di studioso e di scrittore (professione che tra l’altro ha intrapreso senza il consenso dei genitori, che lo volevano medico, come da tradizione familiare) e nelle scelte che non riesce a compiere – non ha neppure una residenza stabile, e al momento abita la casa che un’amica gli ha dato in prestito, prima di partire per un anno sabbatico – Omar fatica a destreggiarsi tra le difficoltà che la vita inizia a proporgli.
Ciò è ancora più evidente se si rapporta il suo carattere a quello della fidanzata: Deirdre è una giovane dottoranda: ambiziosa, pratica, svelta. Siamo quasi tentati di prendere le parti della ragazza: lei accudisce il ragazzo, lei lo rimprovera, lei lo spinge a partire per l’Uruguay, in nome della sua carriera universitaria e di un futuro insieme che il probabile licenziamento di Omar renderebbe ancora più incerto.
Omar è invero un ragazzo un po’ sognante: di animo tranquillo, non si preoccupa di analizzare nel profondo ciò che vede; quasi uno spettatore del mondo, scivola sugli eventi e ne è rapito; paesaggi, persone, luoghi, scivolano su di lui, che li fruisce più con l’istinto che con la mente.
Omar entra in casa Gund in punta di piedi e in silenzio perfetto, e il danno che produce è letale proprio perché il ragazzo si inserisce inconsapevolmente nei delicati equilibri familiari scardinandoli dall’interno, senza quasi che la famiglia stessa se ne accorga, se non quando l’irreparabile è ormai alle porte.

Di ben altra natura è Deirdre. Arrivata in Uruguay (per altro, senza essere stata invitata), prende le redini della situazione, analizza, scandaglia, razionalizza. Non solo. Definisce ruoli e persone, giudica, si sovrappone a Omar e cerca di ottenere, con chiasso e irruenza, ciò che lui – pare – non è riuscito ancora a raggiungere.
Se Omar un poco ci indispone, all’inizio del libro, per le sue indecisioni e le sue plateali ingenuità, ora ci troviamo quasi a sostenerlo, di fronte a Deirdre e alla sua determinazione, che potrebbe essere adeguata (e necessaria) nel mondo da cui la ragazza proviene, competitivo, moderno, altamente selettivo, ma che nella quiete antica e misteriosa di Ochos Rios, a contatto con una famiglia dal passato difficile e tormentato, segnato anche dal dramma del nazismo e dell’olocausto, si trasforma in un’invadenza stridente e fuori luogo.
Ed ecco che la decisone di Omar, la prima, vera decisione che il ragazzo prenderà, alla fine del racconto, sarà per noi una rivelazione; il suo riscatto, la sua scelta, la sua destinazione finale. ("The city of your final destination", come recita il titolo in originale).

Ancora una volta, non tutto è quello che sembra: non è detto che tutte le scelte vadano prese seguendo la razionalità, non è detto che per vivere al meglio la propria vita basti seguire tutti i minimi dettagli di un progetto di perfetta matematica applicata, perché il futuro spesso ci è nascosto e appare all’improvviso; è una strada che non sapevamo di dover percorrere, è una città lontana, una destinazione che non avevamo neppure preso in considerazione.

"Lasciami entrare", di John Ajvide Lindqvist

More about Lasciami entrare La questione non era tanto leggere qualcosa di inatteso. Era verificare le potenzialità di un anti – Twilight interessante ed emotivamente coinvolgente, delirio erotico a parte.

Se di Twilight, più che la trama in se’ e lo sviluppo dei personaggi, interessava la love story e la presenza scenica del bel vampiro Edward, qui siamo al lato opposto della questione. 
Andiamo per appunti sparsi, segnati a margine, a matita.
  • Thriller di atmosfera e sensazione, dalla contestualizzazione forte e priva di qualsiasi, ipotetico, fraintendimento. Avevamo già parlato in più di un’occasione della problematica “contestualizzazione” (vi rimandiamo, una per tutte, all’Irene di “Due”). Qui, inutile pensare a una Forks che potrebbe essere benissimo Forks ma anche altro da sè – perché tanto la storia, in piedi, ci starebbe lo stesso. Qui se non pensi al freddo, alla neve, all’autunno che cede il passo all’inverno del nord, al ghiaccio e alla neve, troppo avanti non vai.
  • E troppo avanti non ci vai neppure se non pensi alla gente del nord, al modo di concepirne l’esistenza, tra una natura selvatica con cui dover, di necessità, fare i conti, che rende selvatici e istintivi anche nell’animo e nell’azione. E ne avevamo parlato, anche di questo, qui (Jostein Gardeer), proprio a definire la questione del romanzo di “nicchia” (doverose le virgolette visto il successo di pubblico).
  • Personaggi. L’arte del comprimario va studiata a tavolino. Non si lavora su una troppo semplice dicotomia Edward-Bella / Oskar-Eli, ma su una struttura corale che passa fluida tra situazioni e personaggi, a dipingere così un quadro minuzioso e specifico di una realtà che, ancora una volta, non può essere sostituita da altro. Pensiamo alle “amiche” di Bella, che a mano a mano spariscono nel filone del “non convincente”. Pensiamo alla famiglia Cullen, rispolverata solo e soltanto al bisogno. L’Irene, nella sua biografia, ci parla dell’importanza del (twitterando), background; ovverosia, trattare il personaggio secondo una sua propria autonomia individuale ed inserirlo all’interno del romanzo soltanto in seguito: solo creandone PRIMA la storia e la biografia, e utilizzandone, DOPO, gli stralci necessari. La tecnica rende il personaggio consistente e sfaccettato, e permette di lasciare in ombra – o di rivelare alla luce del sole- quegli aspetti utili allo svolgimento della trama evitando che la figura risulti creata secondo artificio. La madre di Oskar, il padre, Tommy, il gruppo dei bulletti del quartiere; gli amici del ristorante cinese del venerdì sera. Virginia. Il maestro di ginnastica, il poliziotto “buono” (che apre e chiude la narrazione).
  • E’ un po’ una questione di prospettive, un rimettere a fuoco la situazione: fare il vampiro non è glamour. Non indossi vestiti firmati, non guidi macchine sportive, se ti mostri alla luce del giorno vai arrosto, al sangue umano non c’è alternativa (altro che cacciagione e vegDiet). Hai artigli e ali e denti aguzzi che ti spuntano dappertutto, dolorosamente, anche quando meno te lo aspetti. Puoi anche possedere denaro e beni voluttuari, ma non sai che fartene. Oggetti misteriosi dal sapore antico persi in scatoloni di cartone ammuffito. Banconote arrotolate alla bell’e meglio, nascoste sotto materassi sdruciti e giacigli di fortuna in appartamenti sporchi e deserti che mai ti apparterranno davvero. E’ la solitudine straniante dell’essere umano che non è più tale, perché sradicato dalla comunità, dagli affetti e dal PROPRIO tempo all’interno del mondo. E’ l’idea dell’assassinio e della violenza insita nella creatura mostruosa, un che di terrifico e bestiale che non può essere né mitigato, né taciuto, né controllato con la sola forza del raziocinio. Nessuno è fatto per essere vampiro (a differenza di quanto pensa Bella, secondo cui la vita vampiresca potrebbe essere molto meglio della sua, sfigatissima, vicenda umana), perché il vampiro è un abominio del pensiero, del corpo e dell’azione (si vedano le pagine relative all’ “iniziazione” di Eli): è un bambino castrato nel corpo e nell’animo, violentato e seviziato.
Il messaggio che Eli e Bella ci offrono, diametralmente opposto, vale una riflessione. Quella sulla condizione umana, che per quanto misera possa sembrare – o essere – val sempre la pena di vivere in tutta la sua essenza.