Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

domenica 26 dicembre 2010

"Lolita", di Vladimir Nabokov

More about Lolita Di Dolly devi leggerne in un solo boccone - a disposizione, un lungo week end d’estate, una sdraio a bordo piscina (specchio di acqua azzurra alla maniera ballardiana), noia e afa in pari grado.
Quindi, concludendo (siamo già alle conclusioni?), noi che “Lolita” ce lo stiamo snocciolando – udite udite - da ben un mese, inchiodati alla fermata del tram (massima 0, minima -3), diciamo che l’incompiutezza della lettura sbagliata ce la siamo proprio servita su un piatto d’argento.
La questione è anche l’ermeticità del testo che di certo non favorisce l’arbitraria vivisezione dei paragrafi, a meno di non volersi trovare invischiati in questioni pregnanti di così denso significato del tipo “ma cosa sto leggendo”.
Detto questo, poco altro da aggiungere, ché l’audience si divide in due:
  1. chi ci prova e poi abbandona, perso tra i rimandi letterari pantagruelici di un autore prolifico e dottissimo, e lievemente (lievemente?) irritato dalla figura Humbertesca del vecchioporco (si può dire, vecchioporco? Ma sì, e pure un po’ depravato, a ben guardare) maschilista, egocentrico e (ovviamente) psicopatico;
  2. e chi invece ci si mette per puntiglio, e con sforzo mnemonico notevole e impegno di notti insonni affronta un qualcosa che, Humbert a parte (ma si può, diciamo, mettere Humbert a parte?) sa di thriller Simenoniano - per la serie, sta’ certo, amico, ti porto alla fine del libro, ti dò la mia parola: vedrai la luce in fondo al tunnel; MA, solo quando lo dirò io. Ovvero, lentezza esasperante in caligine di capoversi inutili, meravigliosi, densi di lettere e di romanzo Europeo, inframmezzati da brevi episodi veloci e sporadici di importanza fondamentale per lo sviluppo della trama); e riesce a districarsi, fachiro dilettante su letto di chiodi roventi, liberandosi da una trama quasi scontata alla ricerca di un significato di metatesto nascosto tra le righe fitte di una scrittura che affrontarla con leggerezza sarebbe peccato da pagare alla maniera dantesca, per contrappasso.
Ora, non so se l’avete capito dalle parentesi, ma pare che questa Dolly, più che offrirci risposte, ci ponga di fronte a quesiti che di facile soluzione hanno soltanto la parvenza:
  • metodologia & analisi del testo: inutile approcciare l’opera via lettura veloce, ti perdi metà delle dotterie Nabokoviane e non ci capisci gran che. La lettura lenta è tuttavia rischiosa, foriera di risultati dubbi (vedi sopra, memoria labile e difficoltà con rimandi e parallelismi), ma ha a suo vantaggio la conservazione del ritmo narrativo (suddivisione tra prima e seconda parte, e soprattutto questione paragrafi)
  • tematiche: ondeggiamo come giovani adolescenti (!) in altalena, gambe al vento riso facile e dubbi amletici, tra il testo così com’è scritto - malata ossessione di un uomo maturo per minorenni vergini (vergini?) e implumi - e le sottotematiche che un po’ ci sono, ma forse anche un po’ no (che dire, vogliamo trovare una giustificazione, per questo Humbert? Ma si, parliamo di percorsi di lettura, parliamo di erudizione, parliamo di tematiche, parliamo di società, parliamo di Anni Cinquanta), che forse sono evidenti, ovvio, ma anche solo immaginate da un lettore avido di significati.
Insomma, se ancora non lo si è capito, il consiglio è: prendetela come viene. (Concordiamo con voi: questo post su “Lolita” è utilissimo). Fruizione libera del testo. Trattatelo come un’isola del tesoro, spalancando gli occhi dalla sorpresa e dall’ammirazione di fronte ad un’aggettivazione superba e inusuale, alla citazione erudita, alla tradizione del romanzo europeo in tutta la sua sfolgorante ricercatezza di dialoghi, rimandi, accenni, digressioni, paesaggi, descrizioni, personaggi, caratterizzazioni.
In redazione ne stavamo parlando, di questa trama ballerina di significati (pseudo)nascosti. Cosa dire, occorre forse contestualizzare la questione. Nabokov e la sua “alterità”, il suo essere poeta in esilio. La questione degli autori che “non stanno bene da nessuna parte”, vedi l’Irene, sempre straniera pure a casa sua. La questione del viaggio.

Il suo appartenere, suo malgrado, al boom americano degli Anni 50, con i suoi colori pastello, i frigoriferi cromati, le auto d’epoca, i gelati al gusto di sciroppo chimico, le Università prestigiose e i giovani in pullover e libri stretti al petto e code di cavallo ben legate sopra la nuca, le sigarette, l’alcool, le nuove professioni della pubblicità e delle arti creative. 
Oh, come ci fanno pensare, tutti questi piccoli, innocui luccichii. A cosa? A Yates, senza dubbio, uno specchio magico di un Harry Potter ante litteram, polla scura e insondabile di controfavole a bella posta dimenticate: l’alcool e le sigarette dei Wheelers o la psichiatria spiccia di “Disturbo della quiete pubblica”, per dirne solo alcuni. Carver e i suoi corti fulminanti.
Tra un caffè e l’altro è venuta fuori pure “Olive Kitteridge” (Elisabeth Strout, Fazi 2009). Per la serie, ecco da dove veniva, leggendola, quel nostro déjàvu di cose già sentite e già viste.

lunedì 29 novembre 2010

"Tangenziali - due viandanti ai bordi della città", di Gianni Biondillo, Michele Monina

More about Tangenziali. Due viandanti ai bordi della città Allora. Per parlarvi di “Tangenziali” iniziamo da qui: dal “Parco dei Mostri” di Bomarzo (ma a noi piace di più quando se ne parla come del “Sacro Bosco di Bomarzo”).
E’ l’immagine tra le tante suggerite dallo scrittore-architetto Gianni Biondillo che più ci ha colpito, per intensità e significato. Del perché, verrà in seguito.

L’approccio a “Tangenziali” non può prescindere neppure da un altro strumento, da noi utilizzato di rado, ovverosia quello della citazione. Faremo i bravi questa volta, e ci proveremo, con le dovute attenzioni, perché scrittura, arte visiva, udito e memoria sono un tutt’uno nell’analisi di questo testo che è racconto di viaggio, ma anche letteratura, trattato, saggistica. Ovvero, Psicogeografia.

Nel particolare, parliamo della Tangenziale di Milano – no, meglio, dellE Tangenziali, che poi, alla fine, non si capisce neanche quante siano, e SE esistano davvero. Aggiungiamo due individui dall’aspetto inquietante (un architetto che fa lo scrittore e uno scrittore a metà strada tra la musica e le lettere), il caldo torrido dell’estate milanese e una macchina fotografica, ed eccoci qui. Tutto, rigorosamente, a piedi, per un controcanto a due e pitture macchiaiole di mondi, e microcosmi.

Per darvi un’idea della questione, iniziamo da pagina 41 (M Monina), con il paragrafo illuminante sulla psicogeografia e il nostro caro Ballard come precursore per metodo e analisi: “isolamento umano”, “rapporto con le macchine”, “alienazione”, “condomini come metafora della società, autostrade come metafora della vita, aeroporti come non luoghi” e “topos del non-luogo”.

Verrebbe da sconsigliare la lettura ai Non – Milanesi. E forse è d’uopo. Non per questioni di mero orgoglio meneghino o di presunte superiorità regionali, ma giusto appunto per quello che M Monina ci racconta a pag 177, riferendosi all’approccio letterario di G Biondillo: “le sue pagine trasuderanno amore per questa città molto piu' che le mie” – “e nelle pagine in cui ci sarà odio "riuscirà a essere più incisivo di me"; "un conto è odiare un posto dove sei andato da grande, un conto la città che ha visto da vicino i tuoi primi passi, ma anche le tue prime cadute".

E di rimando G Biondillo, a pag 157: "Milano si è ubriacata di happy hour, di mondanità, si è (piccolo) imborghesita, ha perduto il suo cuore (...) ha dimenticato di essere centro critico, poetico, artistico, e non solo mondano e modaiolo” – che poi riprende il discorso a pag 208 con il “quando è scomparsa Milano” e la breve dissertazione sulla “provincialità della grande firma”.

Vogliamo dire, è questione di comprensione del testo.
La dissertazione sulle ciminiere di Sesto San Giovanni, che avevano tutte i nomi di divinità greche (pag 42). Se non le hai viste alla luce di un tramonto di settembre, quelle ciminiere – o almeno, quelle superstiti – non è che puoi solo così, immaginartele.
Allo stesso modo, non puoi dipingere nei suoi tratti peculiari Via Corelli e la lunga odissea quotidiana verso Palazzo Niemeyer (un viaggio della speranza attraverso il freddo, la neve e l’ignoto – per non parlare del sole torrido di certi micidiali pomeriggi di luglio inoltrato, raggi di luce accecante che ti si piantano negli occhi, bastardi fino in fondo perché scivolano sotto le alette parasole e ti beccano proprio in fondo alla pupilla, moltiplicati a mille grazie alle particelle di polvere depositate sul parabrezza), se sei completamente digiuno dell’argomento (pag. 70, M Monina).

Per non parlare della descrizione puntuale di alcuni (sempre G Biondillo, pag 205) “borghi storici” con "coerenza urbana" da esaltare nella "loro unicità". E poi la Bicocca (pag 233, “milanese molto più di altro”) e Santa Giulia (pag 155). E il Parco della Balossa (che ci fa sorridere, perché ci ricorda nonni e lingue perdute: pag 270, "intima ironia del dire dialettale - quella ironia perduta dai parlanti menghini (Baloss - furbo ma anche coglione)”
Perché tutto questo. Per la sacralità della domus, che a noi latini ci rimane un po’ nel sangue, anche a non volerlo. Ecco il perché del “Sacro Bosco di Bomarzo” che ci ha fatto tanto riflettere. Non lo spieghiamo, lo lasciamo all’arte di G Biondillo, noi non sapremmo davvero fare di meglio.

"Leggere è sempre un percorso, spesso irto, difficoltoso. ci sono libri ai quali mi sono avvicinato dopo un  lungo allenamento. Vette strepitose, monti bianchi, o cordigliere della letteratura. Leggere Joice è come fare mille metri di dislivello al giorno per settimane. Occorre una preparazione fisica, una filosofia adatta per avvicinarsi a certe vette. non bisogna correre, non è mica uno sport , nessuno ti dà una medaglia se arrivi primo. bisogna ascoltare il proprio respiro, regolare il passo, essere ben attrezzati, sapere quando andare e quando fermarsi. viaggiare, fare escursioni, leggere, dunque, hanno la stessa finalità: sono discipline che stimolano percorsi interiori atti all'autocoscienza, riti iniziatici, scavi psicologici che utilizzano strumenti e strategie differenti ma non dissimili" (pag 202)

Le città mutano di contesto e di materiale, a dispetto dei nostri desideri (“caducità dei punti di riferimento”, pag. 79); alcuni luoghi si trasformano, divengono inabitabili, atti ad ospitare potergeist e vecchi spiriti maligni (la casa inabitabile, pag 105). Eppure Milano è sempre Milano, è ciò che la rende tale sono la terra a margine (“il territorio disprezzato, pag 128), le case popolari (pag 263), i quartieri dormitorio, la natura manipolata dall’uomo e per l’uomo (la questione del landscape – “santo, madonna o condottiero” pag. 158). Alla ricerca di una verità sempre perduta e ritrovata, e poi dimenticata di nuovo in un circolo continuo di rimandi, ricordi, ed... epifanie: “il varco della tangenziale, e l'epifania perduta, "la verità troppo rumorosa, troppo caotica, troppo oltreumana" (G Biondillo, pag 271).

E poi, come non amarli, questi due viaggiatori del nostro tempo, che cinguettano a piene corde vocali sulle ragazze milanesi e su quella loro "tradizione tutta meneghina dell’humanitas borromaica" (G Biondillo). Adulatori maliziosi, ci hanno conquistato senza fatica, a pagina 56, perché noi ragazze di Città abbiamo il cuore perso, e facile all’emozione.

mercoledì 27 ottobre 2010

Consigli per la lettura numero 3: “Yo-oh-oh e una bottiglia di rum”. Parte prima.

Nota a margine: pieno diritto del lettore quello di saltare l’introduzione personale alla questione (esageratamente prolissa).
Per farlo, si clicchi qui: “non ci interessa il background” e andrete direttamente all’analisi di quel che vogliamo proporvi.

La storia inizia qui, da una credenza di poco conto abbandonata nel garage. Twitterando, Del Demone Celeste, ovvero, quel che, da leggere, ti capita tra le mani per caso, come un TESORO di pirati nascosto in una vecchia cassa umida e polverosa.

Una vecchia parente, acquisita da parte di cognato materno e passata a miglior vita oramai un decennio fa, di famiglia ricca e di origine avvocatesca, aveva la fissa per i club di lettura, che frequentò con soddisfazione e gloria personale dagli 82 ai 101 (perché dai 50 agli 80 si era dedicata con sfarzo ad altre attività ludiche, quali gite in montagna, sci di fondo, scampagnate domenicali in collina, decoupage, ikebana, cucina etnica e, last but not least, collezione di opere d’arte pittorica).
Si diceva. Assieme a giovani pulzelle tali quali a lei si ritrovava, una volta a settimana, a casa dell’una o dell’altra, un pomeriggio di tè e vassoi di confectioneries serviti dalla domestica, per commentare i libri assegnati e letti di volta in volta.
Di tutto questo fulgore di cristalli e tintinnii di preziosi alle orecchie, a noi, parenti lontani non è rimasto – e non è mai pervenuto altro, né ante, né post mortem, – che qualche scatolone pieno zeppo di libri.
Magra eredità, si potrebbe pensare. E invece no, e ora vi spiego il perché.
In parte si trattava di libri usati, che una parente di mia mamma era solita prendere a prestito dalla libreria per dare senso a interminabili e noiosissimi pomeriggi estivi che si trovava a condividere con la signora in questione, la governante straniera e i nipoti piccoli (che i vari fratelli usavano lasciare a balia per l’estate) nella famosa casa di campagna di cui la signora era proprietaria.
La signora, di memoria lieve e portafoglio ampio, si curava poco dei suoi possessi letterari e quindi – a meno che non si stesse parlando di edizioni di vero pregio artistico – lasciava che i suoi volumi circolassero liberamente tra parenti, nipoti e appartamenti, più per vaghezza che per filantropia.
Di conseguenza, molte delle sue letture hanno condiviso il destino dei libri prestati e più restituiti, un bookcrossing ante litteram di pagine scambiate, lette, ricordate e poi dimenticate.
Per il resto, si trattava di libri nuovi, tutti regali per le feste di Natale, i compleanni e gli anniversari, consigli per letture di nicchia, poco commerciali, che venivano direttamente dal famigerato club di nonnine chic.
Saggi di arte figurativa, scrittori del nord Europa, all’epoca veramente di avanguardia, design anni ’70.

Sarà, ma io li ricordo con affetto, quei volumi che hanno popolato la mia giovinezza. Parlo soprattutto dei “reminders”. Gli Adelphi colorati di confetto; i Sellerio, con la copertina di carta lavorata, impreziosita da misteriose illustrazioni lisce lisce.
Volumi letti, senza dubbio, ma sempre in ottimo stato, ché la signora non amava la piegatura della costa e le orecchie a modo di segnalibro. E, su tutto, un leggero profumo di borotalco di lavanda. E le note a margine.
Come le adoravo, quelle note.
Al principio, subito in prima pagina, nome, luogo e data, in alto a sinistra, una penna nera dalla mina sottilissima, sempre, per un tratto piccolo e discreto. E poi, quando meno te lo aspettavi, una nota a margine, perduta tra le pagine. Un asterisco, un puntino ricamato più volte, un “vedi pagina”, un punto esclamativo.

Tutto questo per dirvi che “Il canto dell’equipaggio” (Pierre Mac Orlan, Sellerio 1996, a cura di Ispano Roventi) l’ho trovato nel garage della sorella di mamma, in una credenza classe 1970, spostata e aperta per caso. Benché il volume, questa volta, non rechi con sé alcun segno di riconoscimento, sono quasi certa della sua origine, perché, a naso esperto, porta ancora un vago, vaghissimo sentore di lavanda.
E siccome a libro capitato per le mani, come dice il demone Celeste, non si rinuncia, eccoci qui.

Consigli per la lettura numero 3: “Yo-oh-oh e una bottiglia di rum”. Nota a margine

Consigli per la lettura numero 3: “Yo-oh-oh e una bottiglia di rum”. Parte seconda.

Allora. Con “L’isola del tesoro” ci cresci. Con “La vera storia del pirata Long John Silver”, ci rifletti sopra. Con “Moby Dick”, prima ci cresci (sudandoci sopra, sempre se riesci a finirlo alla prima lettura, questione non scontata), poi, a seconda lettura, a decenni di distanza, ti perdi via con l’illuminazione esistenziale. L’ “Odissea” ti trascina in uno zibaldone di questioni irrisolte, dalla filologia classica alla filosofia arcaica.
Se poi ci aggiungi anche “Robinson Crusoe”, fino ad arrivare al Tom Hanks di “Cast away”, allora non puoi più uscirne.
Con “Il canto dell’equipaggio” (Pierre Mac Orlan, 1996 Sellerio - curatore Ispano Roventi *) scopri qualcosa che ti pareva di aver perduto per sempre (e della perdita, non è che proprio te ne fossi reso così conto, così come un profumo che ricordi di aver dimenticato solo quando lo senti di nuovo).

E’ il trionfo della narrazione ipnotica, di ritmo metrico, una storia di mistero e avventura raccontata così come ce le raccontavano da bambini, con tutti i topoi al loro posto.
  • La presentazione dei personaggi, che giacciono languidi in uno stato di calma apparente ed equilibrio instabile: il buono, il cattivo, l’approfittatore, il tontolone di turno, le spalle comiche e tragiche, le donne scaltre e, a far da contrappunto, le servette sciocchine tutte moine e sorrisi – a noi sono venute in mente le tre sorelle fatte in serie della Bella e La Bestia Disneyana, le ragazze della taverna, intendiamo, quelle del “quantoèbravoGaston/quantoèfurboGaston”;
  • il ritrovamento della mappa e, di seguito, l’introduzione del meraviglioso e del fantastico;
  • la preparazione del Viaggio (le vele, l’equipaggio – il capitano dalla barba rossa, l’uomo senza un braccio o con una benda all’occhio, il mozzo di colore, il “cerusico”);
  • le pietre preziose come merce di scambio, i pugnali e le pistole di contrabbando;
  • gli eden tropicali perduti, terre dai colori sgargianti popolate da animali fantastici e uccelli dal piumaggio dorato, iante ricche di frutti maturi, golosi, e forieri di morte e veleno. Ad uso e consumo del pubblico over 18, gli accenni alle femmine procaci, vestite di nulla, la pelle ambrata dal sole e dal mare; gli aromi intensi dei tabacchi profumati e i giardini di palme ombrose, nascosti tra mura arroventate dal sole dei tropici; descrizioni senza luogo e soprattutto senza tempo, in cui la Storia del mondo (ricordiamo, siamo nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale) non va certo di pari passo con il tempo del romanzo, che ci riporta semmai indietro, a secoli precedenti, come se il Tempo, quello vero, tornasse e refluisse in un pensiero di intima circolarità;
  • e poi, ovviamente, l’Avventura. Con la A maiuscola. Quella immaginata, tracciata a pennarello rosso su fogli di carta a quadretti che la mamma ci aveva bruciato ai bordi, coi fiammiferi della cucina.
E last but not least la lingua, l’argot più profondo e misterioso, proprio quello che usavamo da bambini, quel linguaggio tutto nostro creato ad arte con l’amico del cuore e di avventure, un patto di sangue vòlto ad escludere, a priori, chi del nostro gruppo di pirati non faceva parte.

Vi consigliamo, a fine lettura, il bellissimo saggio che funge da prefazione: “La canzone dell’avventura” di Ispano Roventi. Non abbiamo veramente nulla da aggiungere.

- "L'isola del tesoro", Robert L Stevenson, 2009 BUR
- "La vera storia del pirata Long John Silver", Bjorn Larsson, 1998 Iperborea
- "Moby Dick", H Melville, 2004 Mondadori
- "Robinson Crusoe", D Defoe, 2003 Mondadori


* NB: purtroppo l'immagine della copertina di "Il canto dell'equipaggio" non è disponibile su Anobii. Siccome siamo un po' ligi con i copyrights, non la peschiamo da altre fonti non accreditate.

lunedì 18 ottobre 2010

"Operaie", di Leslie T. Chang (*)

More about Operaie Se con l’amato Rampini affronti un mondo di cifre, numeri, dati tecnici e testimonianze da puro reportage giornalistico (e del Rampini, una volta iniziato, non ne puoi più fare a meno) qui sei nel regno della meraviglia, nel senso più classico del “tutto è possibile”.
E’ un approccio alla Storia che rivela origini e background culturale dell’autrice, che, seppure nata e cresciuta in USA, accoglie in sé (forse senza nemmeno rivelarlo a se stessa) radici e stili letterari propri di un mondo orientale a noi sconosciuto.
La bibliografia, estremamente curata nei dettagli e l’attenzione all’accuratezza delle fonti, tipica dell’inchiesta giornalistica propriamente detta, vanno di pari passo al racconto del magico e della tradizione: il culto per gli antenati, i riti di passaggio - nascita, matrimonio, morte - ancora così vivi nell’ambiente rurale; il ritmo delle stagioni; la vita in comunità, nel villaggio – una quotidianità fatta ancora di stenti, povertà e commistione promiscua di famiglie, parenti, bambini e animali domestici, tutti radunati sotto lo stesso tetto, a condividere un’abitazione fatiscente priva di riscaldamento, acqua calda ed elettricità, e l’incertezza del domani. Commistione ed esperienze a cui l’autrice non si sottrae ma che, anzi, fa proprie attraverso un percorso di immedesimazione e fascinazione sempre più profonda (e per certi versi, inconsapevole) che la porterà alla fine al recupero della propria storia personale.
Partendo dall’esperienza personale (la sua, e quella delle migranti) l’autrice fa propria la visione storica, tutta orientale, del tutto per la parte: l’esperienza individuale, con il trascorrere del Tempo e delle generazioni, perde il suo carattere di unicità e si fa Storia ed espressione non più del singolo individuo, ma di un popolo intero.
Curiosamente, ed è qui forse, l’esempio più evidente di quell’inconsapevolezza di cui parlavamo più sopra, proprio quella mancanza di individualità che l’autrice lamentava nel corso delle sue interviste alla famiglia di origine è ciò che rimane a noi lettori, a conclusione del reportage.
Le storie di Chumming e Min, abbandonate le particolarità intrinseche tipiche del racconto di esperienze individuali, assurgono a Storia del migrante, attraverso i tempi, i modi e le generazioni. La famiglia dell’autrice, vittima delle rivoluzioni, delle epurazioni, della sventura e dell’esilio, non racconta più soltanto la storia di individui specifici, ma la Storia di tutto il popolo cinese.
Il libro delle genealogie, con i suoi dati scarni e vergati a fatica, è testimone di un processo storico impensabile ai nostri occhi occidentali: il respiro di una civiltà millenaria in continua trasformazione; il tutto in parte, il ritorno all’unità Storica attraverso la parcellizzazione del reale.  

(*) Anche noi partecipiamo alla campagna NastroRosa per la prevenzione del tumore al seno!

lunedì 11 ottobre 2010

"Quella sera dorata", di Peter Cameron

More about Quella sera dorata Su richiesta, qualche breve nota in proposito, data la prossima uscita cinematografica. 

Vi consigliamo di avvicinarvi a questa piccola opera fine e delicata non come a un romanzo ma come a una piece teatrale, cui tanto somiglia.
La trama infatti, riassumibile in poche righe, è quasi soltanto un pretesto che fa da sfondo a questa raffinata commedia agrodolce sui sentimenti e sulle relazioni interpersonali.
Il giovane e promettente Omar Razaghi,dottorando all’Università del Kansas, sta affrontando la tesi di laurea: deve stendere la biografia dello scrittore Jules Gund, morto suicida diversi anni prima e autore di un unico capolavoro, La Gondola.
L’Università ha già stanziato i fondi necessari e Omar ha ricevuto un assegno di ricerca, che prevede anche la pubblicazione del saggio; c’è un unico, piccolo problema: la famiglia Gund non ha concesso al ragazzo l’autorizzazione alla pubblicazione della biografia. Omar, per troppa sicurezza e spavalderia, ora si trova in seria difficoltà: l’assegno di ricerca e la borsa di studio sono vincolati alla pubblicazione del lavoro - lavoro che Omar, tuttavia, non ha l’autorizzazione di stendere. Il ragazzo farà quindi ricorso all’unica, disperata soluzione ancora possibile: spinto da Deirdre, fidanzata grintosa ed energica, partirà alla volta dell’Uruguay, dove vive la famiglia Gund, per tentare di strappare agli eredi il consenso alla pubblicazione dello studio.

Questo è ciò di cui veniamo a conoscenza fin dalle prime pagine del romanzo. Il resto, lo verremo a sapere poco a poco: insieme ad Omar, di cui assumiamo il punto di vista, arriveremo a Ochos Rios, bellissima, antica terra di campagna, e incontreremo la bizzarra famiglia Gund: la vedova Caroline, l’amante Arden con la figlioletta Porzia, il fratello dello scrittore, Adam, con il compagno, il giovane Pete.
Omar, interagendo con i diversi personaggi, darà il via ad una serie inarrestabile di eventi, a volte comici, a volte tragici, in una commedia dove davvero nulla è ciò che sembra.
A complicare le cose, l’arrivo inaspettato di Deirdre, un vero tornado che sconvolgerà definitivamente la vita di tutti i personaggi.

Gran parte della narrazione di svolge per episodi, in maniera molto simile al modo in cui scene diverse si alternano all’interno di una rappresentazione teatrale.
Ci sembra quasi di percepire i cambi di scenografia (pochi, e per questo molto significativi: la casa padronale, il giardino, un ristorante, la casa di Adam, l’ospedale), l’ingresso degli attori sul proscenio, o il loro nascondersi dietro le quinte.
Per la prima parte del libro, ambientazione e descrizioni di personaggi e di paesaggi sono lasciate alla nostra immaginazione. Seguiamo solo il punto di vista di Omar: ciò che più è messo in evidenza sono i fatti, le azioni, lo scorrere del tempo e dei giorni. La bellezza di un singolo luogo, quella di una persona. Ciò che colpisce di più l’istinto del ragazzo.
Soltanto con l’arrivo di Deirdre riusciremo finalmente ad avere qualche notizia in più: sarà la ragazza, grande osservatrice, sicura di se’, di intelligenza acuta e pronta, a descriverci – con accuratezza tutta femminile – la villa padronale, l’aspetto delle due donne che la governano e le misteriose dinamiche sottese tra le due, le sfaccettature del carattere di Mr. Adam e del suo compagno.

Dobbiamo prestare attenzione proprio a questa dicotomia, che acquisterà un’importanza sempre maggiore nel corso della narrazione; Omar, nelle prime pagine del libro, si mostra come un giovane di talento certo e arguto, ma indeciso e poco lungimirante.
Ne sono esempi eclatanti la leggerezza nel trattare con l’Università, o la mancanza di chiarezza con la fidanzata, con la quale non si arrischia a pianificare alcun progetto per il futuro, malgrado lei li richieda a gran voce. Impantanato nella sua vita universitaria di studioso e di scrittore (professione che tra l’altro ha intrapreso senza il consenso dei genitori, che lo volevano medico, come da tradizione familiare) e nelle scelte che non riesce a compiere – non ha neppure una residenza stabile, e al momento abita la casa che un’amica gli ha dato in prestito, prima di partire per un anno sabbatico – Omar fatica a destreggiarsi tra le difficoltà che la vita inizia a proporgli.
Ciò è ancora più evidente se si rapporta il suo carattere a quello della fidanzata: Deirdre è una giovane dottoranda: ambiziosa, pratica, svelta. Siamo quasi tentati di prendere le parti della ragazza: lei accudisce il ragazzo, lei lo rimprovera, lei lo spinge a partire per l’Uruguay, in nome della sua carriera universitaria e di un futuro insieme che il probabile licenziamento di Omar renderebbe ancora più incerto.
Omar è invero un ragazzo un po’ sognante: di animo tranquillo, non si preoccupa di analizzare nel profondo ciò che vede; quasi uno spettatore del mondo, scivola sugli eventi e ne è rapito; paesaggi, persone, luoghi, scivolano su di lui, che li fruisce più con l’istinto che con la mente.
Omar entra in casa Gund in punta di piedi e in silenzio perfetto, e il danno che produce è letale proprio perché il ragazzo si inserisce inconsapevolmente nei delicati equilibri familiari scardinandoli dall’interno, senza quasi che la famiglia stessa se ne accorga, se non quando l’irreparabile è ormai alle porte.

Di ben altra natura è Deirdre. Arrivata in Uruguay (per altro, senza essere stata invitata), prende le redini della situazione, analizza, scandaglia, razionalizza. Non solo. Definisce ruoli e persone, giudica, si sovrappone a Omar e cerca di ottenere, con chiasso e irruenza, ciò che lui – pare – non è riuscito ancora a raggiungere.
Se Omar un poco ci indispone, all’inizio del libro, per le sue indecisioni e le sue plateali ingenuità, ora ci troviamo quasi a sostenerlo, di fronte a Deirdre e alla sua determinazione, che potrebbe essere adeguata (e necessaria) nel mondo da cui la ragazza proviene, competitivo, moderno, altamente selettivo, ma che nella quiete antica e misteriosa di Ochos Rios, a contatto con una famiglia dal passato difficile e tormentato, segnato anche dal dramma del nazismo e dell’olocausto, si trasforma in un’invadenza stridente e fuori luogo.
Ed ecco che la decisone di Omar, la prima, vera decisione che il ragazzo prenderà, alla fine del racconto, sarà per noi una rivelazione; il suo riscatto, la sua scelta, la sua destinazione finale. ("The city of your final destination", come recita il titolo in originale).

Ancora una volta, non tutto è quello che sembra: non è detto che tutte le scelte vadano prese seguendo la razionalità, non è detto che per vivere al meglio la propria vita basti seguire tutti i minimi dettagli di un progetto di perfetta matematica applicata, perché il futuro spesso ci è nascosto e appare all’improvviso; è una strada che non sapevamo di dover percorrere, è una città lontana, una destinazione che non avevamo neppure preso in considerazione.

"Lasciami entrare", di John Ajvide Lindqvist

More about Lasciami entrare La questione non era tanto leggere qualcosa di inatteso. Era verificare le potenzialità di un anti – Twilight interessante ed emotivamente coinvolgente, delirio erotico a parte.

Se di Twilight, più che la trama in se’ e lo sviluppo dei personaggi, interessava la love story e la presenza scenica del bel vampiro Edward, qui siamo al lato opposto della questione. 
Andiamo per appunti sparsi, segnati a margine, a matita.
  • Thriller di atmosfera e sensazione, dalla contestualizzazione forte e priva di qualsiasi, ipotetico, fraintendimento. Avevamo già parlato in più di un’occasione della problematica “contestualizzazione” (vi rimandiamo, una per tutte, all’Irene di “Due”). Qui, inutile pensare a una Forks che potrebbe essere benissimo Forks ma anche altro da sè – perché tanto la storia, in piedi, ci starebbe lo stesso. Qui se non pensi al freddo, alla neve, all’autunno che cede il passo all’inverno del nord, al ghiaccio e alla neve, troppo avanti non vai.
  • E troppo avanti non ci vai neppure se non pensi alla gente del nord, al modo di concepirne l’esistenza, tra una natura selvatica con cui dover, di necessità, fare i conti, che rende selvatici e istintivi anche nell’animo e nell’azione. E ne avevamo parlato, anche di questo, qui (Jostein Gardeer), proprio a definire la questione del romanzo di “nicchia” (doverose le virgolette visto il successo di pubblico).
  • Personaggi. L’arte del comprimario va studiata a tavolino. Non si lavora su una troppo semplice dicotomia Edward-Bella / Oskar-Eli, ma su una struttura corale che passa fluida tra situazioni e personaggi, a dipingere così un quadro minuzioso e specifico di una realtà che, ancora una volta, non può essere sostituita da altro. Pensiamo alle “amiche” di Bella, che a mano a mano spariscono nel filone del “non convincente”. Pensiamo alla famiglia Cullen, rispolverata solo e soltanto al bisogno. L’Irene, nella sua biografia, ci parla dell’importanza del (twitterando), background; ovverosia, trattare il personaggio secondo una sua propria autonomia individuale ed inserirlo all’interno del romanzo soltanto in seguito: solo creandone PRIMA la storia e la biografia, e utilizzandone, DOPO, gli stralci necessari. La tecnica rende il personaggio consistente e sfaccettato, e permette di lasciare in ombra – o di rivelare alla luce del sole- quegli aspetti utili allo svolgimento della trama evitando che la figura risulti creata secondo artificio. La madre di Oskar, il padre, Tommy, il gruppo dei bulletti del quartiere; gli amici del ristorante cinese del venerdì sera. Virginia. Il maestro di ginnastica, il poliziotto “buono” (che apre e chiude la narrazione).
  • E’ un po’ una questione di prospettive, un rimettere a fuoco la situazione: fare il vampiro non è glamour. Non indossi vestiti firmati, non guidi macchine sportive, se ti mostri alla luce del giorno vai arrosto, al sangue umano non c’è alternativa (altro che cacciagione e vegDiet). Hai artigli e ali e denti aguzzi che ti spuntano dappertutto, dolorosamente, anche quando meno te lo aspetti. Puoi anche possedere denaro e beni voluttuari, ma non sai che fartene. Oggetti misteriosi dal sapore antico persi in scatoloni di cartone ammuffito. Banconote arrotolate alla bell’e meglio, nascoste sotto materassi sdruciti e giacigli di fortuna in appartamenti sporchi e deserti che mai ti apparterranno davvero. E’ la solitudine straniante dell’essere umano che non è più tale, perché sradicato dalla comunità, dagli affetti e dal PROPRIO tempo all’interno del mondo. E’ l’idea dell’assassinio e della violenza insita nella creatura mostruosa, un che di terrifico e bestiale che non può essere né mitigato, né taciuto, né controllato con la sola forza del raziocinio. Nessuno è fatto per essere vampiro (a differenza di quanto pensa Bella, secondo cui la vita vampiresca potrebbe essere molto meglio della sua, sfigatissima, vicenda umana), perché il vampiro è un abominio del pensiero, del corpo e dell’azione (si vedano le pagine relative all’ “iniziazione” di Eli): è un bambino castrato nel corpo e nell’animo, violentato e seviziato.
Il messaggio che Eli e Bella ci offrono, diametralmente opposto, vale una riflessione. Quella sulla condizione umana, che per quanto misera possa sembrare – o essere – val sempre la pena di vivere in tutta la sua essenza.

martedì 28 settembre 2010

"Grigio cenere", di Bruno Agostini

More about Grigio cenere Il secondo volume della “trilogia Agostini” è questione difficile, da affrontare con cautela; pena, l’affanno nell’analisi delle sottotematiche e la svalutazione di alcune meta-letture che ci paiono, invece, degne di approfondimento.
Transizione e trasformazione, queste le prime osservazioni a passare per la mente.

Transizione: l’equilibrio precario ed instabile del primo volume lascia il posto ad una realtà complessa e in divenire, un passaggio a Nord Ovest verso mondi diversi e sconosciuti.
Dalla finanza creativa all’archeologia di contrabbando, dalla politica corrotta ai baroni universitari (un filo rosso di personaggi che si lasciano, si perdono, si ritrovano e si allontanano in un continuo gioco di elastico teso) lo scenario muta, veloce e improvviso come quinta di teatro.
Le contestualizzazioni dell’azione, così diverse tra il primo e il secondo volume, lungi dal frammentare il reale lo fanno composito, sfaccettato, eppure univoco, a mostrare la varietà cangiante di un mondo vivo, fremente, in continua evoluzione e trasformazione.

Finestre che si aprono e si chiudono su vite e mondi paralleli, sovrapposti l’uno all’altro come realtà alternative e compenetrate: gli esponenti dell’Organizzazione (Lisetta Gargiulo con la sua “piccerélla”, don Marzano e don Alvaro, e tutta la bassa manovalanza) e l’Ispettore di Polizia Carmine Bonocore; la nostra amata Elena e il giornalista Vittorio Camporesi; Da Ponte l’antiquario corrotto e il Professor De Castro; don Mimì e la sua libreria e, su tutti, Titina, punto di contatto e di transizione tra molti, se non tutti, i personaggi, e sovrana indiscussa della trasformazione più profonda.

Così come l’astrattezza del bianco si mescola al buio del nero e sparisce nel grigio cenere, così la realtà dell’esistenza, molteplice e composita, è un Giano Bifronte in continua trasformazione, una chimera a sei facce, come quelle che compongo la figura geometrica del parallelepipedo che per sua natura mostra solo una faccia per volta ma, in realtà, di facce ne ha altre cinque, che rimangono nascoste.
La realtà cambia forma, a seconda del lato da cui la guardi (o del lato che ti è dato guardare).
Ce lo fa capire Elena, nella sua riflessione sulle madri indegne e sui figli sfortunati (pag 409). E ce lo fa capire prima ancora Titina, quando, accompagnando Elena in gita agli scavi di Pompei, rivela alla nuova amica il lato oscuro della sua esistenza.

Doppia lettura e doppia interpretazione per tutti personaggi primari.
Lisetta Gargiulo, membro dell’Organizzazione e madre amorevole, vittima di un ingranaggio terrificante di morte e distruzione.
Carmine Bonocore, a metà strada tra il servitore dello Stato senza macchia e senza paura (che però, a quanto pare, accetta di entrare nelle forze dell’ordine per mero calcolo economico ed opportunistico) e il padre di famiglia, una famiglia sconclusionata come tante, con moglie, figlio e psichiatra a carico.
Don Marzano, esponente di spicco di un’organizzazione malavitosa, eppure conservatore (va da se’, ingiustificabile) di principi atavici di rispetto ed onore di fronte alla terra, alla famiglia, alla donna, al comune senso del pudore.
Alvaro Spasiano, la cui ultima, teatrale immagine ci riporta a una stanza vuota; un tavolo abbandonato, intorno odore di fumo e tensioni e corpi: una festa macabra di morte, violenza, vendetta, consumata con un riso tirato all’angolo della bocca e il veleno in gola.
Elena, un turbinante esempio di ragione e sentimento, tutto mescolato assieme in un gomitolo di lana inestricabile. Specchio della verità, il suo nuovo appartamento dai mobili bianchi, verniciati e immacolati, che conserva al suo interno, nascosti tra librerie e tendaggi lindi, il libro dei proverbi napoletani e i versi ipnotici di Enzo Avitabile, quasi stessimo per entrare nell’antro di una moderna Sibilla Cumana.
Vittorio Camporesi, giornalista dal talento forte e intuitivo, perso e smarrito (per ora) nei deliri tossici della cocaina.
Don Mimì e la rivelazione finale, transizione e trasformazione che passa di necessità tra lacrime e dolore, sangue e tumulti.

Il grigio cenere, se spazzato via, scopre mondi passati (quello che non siamo più) e mondi presenti (quello che siamo ora): i corpi degli uomini di Pompei, nascosti dalla cenere del Vesuvio e ritornati alla vita attraverso il bianco del gesso, mostrano, agli occhi di Vittorio, il legame indissolubile tra morte e conservazione (pag 257) - ovverosia, parafrasando, la trasformazione che sempre ci accompagna e alla quale l’essere umano, seppure volendo, non può sottrarsi.

martedì 14 settembre 2010

"La vita di Irène Némirovsky", di Di Patrick Lienhardt, Olivier Philipponnat. Consigli di lettura: una biografia "pubblica"

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Abbiamo fatto i compiti quest’estate. Diligenti, abbiamo preso dallo scaffale la biografia dell’Irene, l’abbiamo messa in valigia e ce la siamo letta tutta, da cima a fondo, seduti comodi sul tavolino in terrazza, un matita dell’Ikea in mano e la tisana digestiva nell’altra, ché di sera, sui monti, scende l’umido.
Twitterando: dedicato a chi ha tempo da perdere - in una delle applicazioni più rognose che esistano quando si parla di fruizione consapevole del testo: lettura lenta & continua, seppur frazionata tentando di destreggiar se stessi tra rimandi, note a piè pagina, virgolettati, bibliografia. Ma ce la si può fare, se sospinti dal desiderio di dover, per forza e per orgoglio, capirne un po’ di più, di questa Irene.

Abbiamo letto in giro di come si sia storto un po’ il naso, di fronte ad un’analisi che privilegi, come in questo caso, l’aspetto letterario – pubblico verrebbe da dire – piuttosto che quello personale, privato, intimo.
Quando una lettura delude le aspettative ci capita, talvolta, di ripensare al “cosa sarebbe successo se”. Abbiamo tentato il passatempo anche questa volta, per vedere se, davvero, l’approccio all’Irene avrebbe potuto essere diverso.
Ne abbiamo convenuto che, ma anche no.
Intendiamoci.

Dal punto di vista contenutistico ne sarebbe venuto fuori un gran pasticcio, certo un po’ più fruibile rispetto alla mera cronaca, tra testimonianze (poche) di vita privata e inevitabile ricostruzione pseudo-romanzata, il tutto inframmezzato dalle note a piè pagina, che sarebbero rimaste ad ergersi quale unico baluardo (indifeso, perché non più supportato dall’utilizzo delle fonti) di testimonianza storica oramai relegata al ruolo di “se hai voglia leggi qui, ma anche no”.
L’Irene non era abbastanza famosa, nemmeno quel tanto che sarebbe bastato perché qualcuno si prendesse la briga di scriverne, in vita.
E nessuno avrebbe potuto testimoniare per lei, tra i parenti: né gli zii dispersi in Russia, né le figlie, che di lei serbano un ricordo di bambine, né la madre, né le rare amicizie. La testimonianza diretta avrebbe lasciato il posto a fatti romanzati, di natura incerta e validità storiografica di dubbia qualità.

La scelta degli autori ci è parsa la più autentica possibile.
Primo, perché ci restituisce un po’ di umiltà perduta. Pensare alla biografia dell’Irene come alla narrazione più o meno romanzata di un talento letterario in fuga dal Nazismo sarebbe stato, ancora una volta, dare adito a quel sentimento di orgoglio che spesso ci spinge a credere che l’unico atteggiamento consono per un lettore moderno sia la dominazione del testo. L’atteggiamento voyeuristico avrebbe fatto presa, ma non era questo l’approccio e soprattutto non era questo il fine.

L’analisi “paleografica” inoltre era l’unico sistema, in mancanza di testimonianze dirette, per identificare e porre in corretta luce tutta una serie di tematiche la cui omissione avrebbe, oltre che svalutato l’opera, anche creato alcuni problemi di interpretazione: l’analisi della stampa dell’epoca, i quotidiani, i settimanali, il romanzo a puntate, i rapporti tra editoria e politica e via di seguito.
L’approccio voyeuristico avrebbe magari dato più riscontro in termini di gradimento, ma avrebbe offerto un’immagine della scrittrice totalmente avulsa dal reale.

Irène Némirovsky non ha avuto una vita particolare, o più particolare di altre – certo, denaro a parte.
Il sensazionalismo non era di casa, presso la famiglia Epstein. Il rapporto con la madre, “solo” una famiglia difficile, come ce ne sono tante altre e come ce ne saranno.
Dipingere un “caso Irene” avrebbe avuto come risultato la mera e sterile creazione di un personaggio fittizio, da gran teatro, che nulla avrebbe avuto a che fare con quella figura di donna oramai così familiare ai nostri occhi: una donna minuta, né bella né brutta, affetta da una grave miopia, amante della vita tranquilla, della propria casa, dei propri affetti.
Ed è proprio questo spirito di tranquilla normalità, che affiora senza indugi, in ogni pagina, in ogni nota, ad offrire la chiave di lettura più autentica: una donna come tante, che ha saputo, grazie al talento, trasformare la sua vita nella vita di molti altri. 

mercoledì 18 agosto 2010

"L'ultima estate in città", di Gianfranco Calligarich

More about L'ultima estate in città Combatti. Combatti strenuamente. Contro i cataloghi on line. Contro le librerie che se non è il thrillerone svedese ti guardano male. Contro i non disponibile sparati dai videoterminali.
È una lotta senza quartiere, uno scontro tra titani, altro che Hollywood.
Ma quando ce la fai, e te ne esci con questa cosa in mano, e data la copertina rigida fai pure fatica soltanto a toccarla, per paura che si sgualcisca - che soddisfazione.

Sei preso via in un turbine di parole, di inchiostro, di memoria storica e letteraria che ti riporta indietro, a quando muovevi i primi passi, incerti, pescando a caso dalla libreria di papà, la domenica pomeriggio. E i libri erano sgualciti e sapevano di carta acida e gialla.
E di alcuni ti innamoravi, di altri dopo sei pagine non sapevi che fartene; altri ancora, vuoi per l’età, vuoi per il testo, non ti si schiudevano agli occhi, e te ne rimanevi lì, amareggiata, a chieder consiglio telefonico alla zia, sorella di mamma, che per tutta risposta ti diceva che ogni libro ha un suo momento e che il momento di quel libro lì, per te, non era ancora arrivato.
Avevano titoli curiosi: La Storia, Lessico Famigliare, L’Ombra delle colline, e gli autori di cognome facevano Sgorlon, Sciascia, Calvino, Gadda, Anna Maria Ortese, Parise.
E il divano del soggiorno, di velluto peloso, marrone, così duro che dopo 10 minuti avevi già il sedere piallato a tavoletta.

Tutto questo inutile preambolo per farvi capire che di Calligarich non parleremo. Basta e avanza la rassegna stampa che potete trovare sul web, direttamente sul sito dell’autore.

Le pagine notevoli sono molte e tutte degne di citazione.
La giornata alla Rai per esempio, tra raccomandazioni, stanze chiuse, personale dalle mansioni non ben identificate, spettacolo, veline e letterine. Oggi come allora.
O il cameo su Milano in dicembre, che se a Milano ci vivi, non puoi non sentire una stretta al cuore, di fronte a quella mezza pagina e ai tuoi ricordi di bambina.

Oppure ancora, l’episodio quasi conclusivo, in villa, con il pittore e la sua congrega di adepti. Religioni posticce da guru di periferia, buone per artisti squattrinati, modelle anoressiche, scrittori in attesa di successo (e di raccomandazione). La terra d’Italia negli anni ’70.

Arianna è come tante, femme fatale, psiche fragile e troppi soldi da portarsi in giro. Ma ha a suo merito un certo qual coraggio, un’identità di fondo mai negata (si veda la questione mi ami / non ti amo, che pare puerile, ma alla fine tanto puerile non è) e anzi quasi ostentata, fino alla soluzione finale di annichilimento che non è altro se non uno sfolgorante, ultimo e disperato tentativo di auto-affermazione.

"I cani e i lupi", di Irene Némirovsky

More about I cani e i lupi Che dire. A noi è piaciuto Harry. Si si, proprio lui, così bello, elegante, quasi fosse un divo del cinema. Le mani delicate, lisce e così poco avvezze al lavoro manuale. Un first name così lontano dalle tradizioni familiari che più lontano non si può. Lo sguardo sdegnoso e snob, i vestiti di alta sartoria, i precettori più eruditi, l’educazione internazionale.

Eppure i capelli portati stretti, tirati all’indietro grazie a generose spalmate quotidiane di brillantina, nascondono un segreto. Sono capelli da ebreo di Kiev, scuri, forti, ricci, indomabili. E il tremito delle mani, di quelle mani da gran signore. E gli occhi, fiammeggianti di passione.
Da rifletterci, su questo Harry, specchio e parodia di tutti i tempi, e sul suo alter ego Ben. E sull’errore di entrambi: l’uno, che rinnega per imprinting materno, per convenzione, perché è così che si fa. L’altro, che piuttosto di arretrare – fosse anche solo di un millimetro - sacrifica senza alcuna esitazione vita, amori, denaro, affetti.
In entrambi i casi, medesima pena: l’infelicità eterna.

Le ultime pagine, con la descrizione del parto di Ada, sono veramente significative.

Quando affronteremo la biografia, ne sapremo un po’ di più, anche considerando la cronologia delle opere. Abbiamo però avuto l’impressione di tornare in parte (viste anche le tematiche) a "Un bambino prodigio".
Per essere precisi, ci è tornata alla mente la questione della tappezzeria della camera.
Come se, all’Irene, il professore di Scrittura Creativa avesse dato il compito a casa: descrivere, in meno di una pagina, la tappezzeria che decora una camera da letto di una nobile residenza estiva - Russia pre-rivoluzionaria. Avevamo già analizzato il risultato.

Ecco, qui ci sembra che sia stato applicato lo stesso metodo: partendo da canovaccio noto (difficile relazione sentimentale tra due personaggi contemporanei ma separati da classe sociale, censo, situazione storica e politica, religione) sviluppare intreccio, trama, psicologia personaggi, ambientazione.

Da rifletterci confrontando l’approccio dell’Irene con la scrittura di oggi, questione su cui ci eravamo già soffermati parlando di "Due". Talento a parte, forse la questione deriva da qualcosa di più profondo.
La società dell’epoca - in special modo quella femminile - era votata, piuttosto che all’espressione di se stessa, all’osservazione silenziosa, al ricordo, alla trasmissione della cultura orale e delle tradizioni. La continua osservazione della realtà circostante, nutrita dal silenzio imposto per ruolo e censo, aveva, tra i tanti, oggettivi svantaggi, il merito di sviluppare occhio, istinto e acume – oltre che spirito creativo e artistico.

Forse, se parte della letteratura contemporanea, per assolvere al medesimo compito affidato all’Irene al momento della stesura di "I cani e i lupi", risolve il tutto portando in scena situazioni che non sono reali – o per lo meno realistiche, ovverosia contigue alle esperienze dell’autore, osservate, analizzate e poi rivisitate, ma solo fittizie (ricorrendo ad escamotage quali personaggi limite del patologico o a generi letterari come l’Urban Fantasy) ciò dipende in parte anche dalla ormai ridotta capacità di osservazione, verifica, introspezione, che in alcuni casi è stata sostituita da una marcata espressione individuale che talvolta privilegia il sé piuttosto che l’unità sè-tutto.

Ultima nota, onore alla traduzione.

martedì 17 agosto 2010

"I parassiti", di Daphne Du Maurier

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Ti punta un non so che di fastidioso, questa lettura. Qualcosa di acuto, irritante. Fin dalle prime pagine. Ti senti a disagio sulla sedia, ci rifletti ma non riesci ad arrivare al perché della questione, pare sempre che qualcosa sfugga via, giusto un attimo prima di essere catturata.
Eppure, vai avanti, pagina dopo pagina perché non ne puoi fare a meno. E la cosa ti snerva parecchio (irritazione parte prima: la fruizione della lettura), perché, per un libro così (cosa vuoi che sia, romanzo di atmosfera, crisi familiare, upper class), vorresti essere tu, quello che governa la situazione. Ti senti anche un po’ spostato, in balia di una narrazione che per le prime 20 pagine almeno non sembra condurre da nessuna parte.
A un certo punto, intorno a pagina 15, vorresti anche un po’ mollarla lì la cosa, ma poi, improvviso, arriva “tutto il resto” e non è che ci puoi fare molto.

“Tutto il resto” è il passato, che riaffiora a getti discontinui, ma sempre più forti e potenti (come l’acqua del mare che sale su della sentina, vien da dire...).
Ricordi che ti ottenebrano la mente, persi tra i flashback di un passato lontano, privato di qualsiasi coordinata di tempo e di spazio - teatri, hotel, appartamenti, città, lingue diverse – “Stagioni” senza né tempo né luogo, commedie, impresari, orchestre, matinée, musica, balli e feste notturne. Un mondo privato, personale, intimo, scardinato da qualsiasi logica e pretesa di normalità.
Il caos regna sovrano (irritazione parte seconda, il contesto), tra orari mai rispettati, bambini selvaggi, domestici con veci di genitori, capricci di artisti e presunti tali, turbinanti mondi di spettacoli che sono piece teatrali sia sul palcoscenico, sia fuori.

Non che l’autrice – o meglio, la voce corale a cui si affida, per lo meno all’inizio del romanzo – dia un’interpretazione univoca, alla qual cosa (irritazione parte prima: la fruizione della lettura, vedi sopra). E ti urta davvero, l’idea, perché è sempre irritante quando qualcuno si prende la briga di farti osservare le tue, personali, mancanze.
La fascinazione per il mondo dello spettacolo, per questa famiglia di artisti, per le vite vissute, per quelle rappresentate, per quelle soltanto immaginate, è in te così potente da non permetterti, per ora, la minima possibilità di uno scarto verso il negativo – malgrado il desiderio intimo.

Perché “Tutto il resto” non solo è “Mamma e Papà”, ma è anche Maria, la primadonna, l’attrice bellissima, la donna dalla pelle di porcellana e lo sguardo sognante, adagiata sul divano nel salotto di una casa di campagna, in una fredda e cupa domenica di inverno, un braccio sospeso, l’altro reclinato sul volto. E’ lei, nella sua parte da diva del palcoscenico, attraverso falsità e maschere, a dettare legge. Non solo sui suoi familiari e sul mondo che la circonda (irritazione parte seconda, il contesto, vedi sopra), ma anche, disgraziatamente, sul lettore (irritazione parte prima: la fruizione della lettura, vedi sopra).
E’ Niall, spirito inconcludente, in balia degli eventi, delle donne e del suo estro di compositore di jngle buoni per casalinghe, soldati, barbieri e lustrascarpe. Ragazzino viziato e mai cresciuto del tutto, deresponsabilizzato, irritante nel suo disprezzo egocentrico per il mondo scintillante del successo – che tuttavia, malgrado i propositi, mai abbandona - e le fatiche degli uomini (irritazione parte seconda, il contesto, vedi sopra).
E’ Celia, vittima inerme prima dei genitori e poi dei fratelli (che poi, per la cronaca, hanno sangue in comune con lei ma non tra loro). Curioso: sarà proprio Celia, unica progenie per così dire legittima del clan Delaney, a rinunciare al talento, alle ambizioni, alla fama e alla celebrità, che forse sarebbero potute arrivare attraverso il disegno e la scrittura. Scialba, grassoccia, timida, introversa, passerà la vita al capezzale di chi ne avrà bisogno, cercando di compensare così la tenerezza, l’affetto e il sentimento di cui mai era stata oggetto da bambina, ma con l’incapacità totale di un recupero – e rinnovamento – di se stessa e del mondo che la circonda (irritazione parte seconda, il contesto, vedi sopra).

Nessuno si salva: né Mamma, morta per un incidente all’apice della carriera, né Papà, spento in vecchiaia, minato nel fisico e nella mente, umiliato da una leggera demenza aggravata dal consumo eccessivo di bevande alcoliche, che lo rende ridicolo agli occhi della famiglia, della servitù, degli estimatori di un tempo.

Solo al termine della lettura il giudizio sospeso rientra nei canoni, e rende nuovamente visibile quello stridore - quella vocina interiore – insomma quel sibilo all’orecchio che ci angustiava tanto (toh, c’è ancora, ma da che parte arriva?).
In un modo o nell’altro, siamo arrivati ad essere, soltanto e ancora una volta, meri spettatori di fronte al palcoscenico. Come sia potuto succedere, non riusciamo a capacitarci.
I Delaney stessi l’avevano predetto: “La gente parlava male di noi già quando eravamo bambini. Ovunque andassimo, riuscivamo a suscitare una strana ostilità” – pag. 18. “Quando si gioca a (...) nessuno sceglie mai “I Delaney”. Non ci scelgono neanche uno per uno come singoli individui. Ci siamo guadagnati, e non sempre giustamente a nostro avviso, la reputazione di ospiti difficili” – pag. 205.
Di fronte a simili affermazioni, abbiamo corrugato la fronte, perché non ne capivamo il senso, così, a metà lettura. Facendo spallucce le avevamo archiviate, ma il sibilo all’orecchio era sempre lì, non se ne andava.
Il merito della Du Maurier sta proprio nell’averci portato, con subdole armi letterarie (irritazione parte prima: la fruizione della lettura, vedi sopra) e un felice intreccio che mescola il prima e il poi, a ricoprire lo stesso ruolo dei muti spettatori che non hanno fatto altro se non osservare, distrattamente, le vicende della famiglia Delaney, nel trascorrere dell’esistenza: il fascino per questa famiglia sconclusionata, vittima di se stessa e degli eventi, si trasforma ben presto in fastidio e irritazione, sentimenti che non sono mitigati neppure dalla conclusione del romanzo, che anzi, risveglia nel lettore un’inquietudine sottile da senso di colpa mal celato.

La chiusa, di notevole impatto, è composta da sei capitoli conclusivi, uno per ogni fratello, concatenati, ritmici nel loro insieme di struttura a chiasmo: a Farthings, nell’ordine, pre-cena con Niall in camera, Maria nella vasca da bagno, Celia, che erra vagabonda da una stanza all’altra.
Successivamente, dal capitolo 23, Celia, Maria (significativa l’ultima immagine che abbiamo di lei, attraverso lo specchio della toilette, mentre la guardarobiera termina la vestizione, ennesima mascherata senza logo né tempo) e infine, a conclusione del tutto, passato, presente e futuro, Niall e l’acqua di un ritorno. Acqua di mare, come quella che inghiottì sua madre e che, guarda caso, non riporta altro che la nostalgia per un passato perduto di figlio amato, unica parvenza di una vita di equilibrio e stabilità di affetti e luoghi che soltanto la vecchia nutrice era stata in grado di procurare.

Note a margine:
  • Degno di interesse uno dei capitoli centrali del libro, quello sulla “maternità” di Maria, e sul suo rapporto con la primogenita appena nata. Una lezione di puro babyblues: onesta, lampante, precisa, scabrosa, che pochi, oggi, hanno il coraggio di celebrare (mi viene in mente la Cristina Comencini di “Quando la notte”). Come anche la parte conclusiva su Celia e l’amarezza dell’orologio biologico, tictac, tictac.
  • Immediato il raffronto con “Un passato imperfetto” di Julian Fellowes (Neri Pozza, 2009) e “Ritorno a Brideshead”, come dire, parafrasando Yates, che se non parli di famiglia, nei tuoi libri, non parli di nulla.