Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

venerdì 30 dicembre 2011

"La città di adamo", di Giorgio Nisini

More about La città di Adamo

- Con una particolare capacità narrativa che mira ad accomunare, attraverso un gioco sottile di metafore e sineddoche, il tutto all’oggetto, G Nisini catapulta fin da subito il lettore nel territorio del falso d’autore

- Il televisore Brionvega, che l’affascinante Ludovica sistema in soggiorno, è un falso storico: una riproduzione benfatta del fratello maggiore dell’epoca, curata nei particolari costosi del modernariato, ma sempre un falso,riconoscibile solo ad occhio esperto (e socialmente accettato e ricontestualizzato). Ed è proprio attraverso il televisore che Marcello Vinciguerra – in contemporanea al lettore – è catapultato nella realtà di un altro falso storico: quello della vita stessa del protagonista

Marcello, adolescente attempato, da diversi anni gioca a fare l’adulto, con risultati piuttosto soddisfacenti. Infanzia serena e senza troppi scossoni, tra buone scuole e una famiglia attenta, di ottima cultura; laurea acquisita fuoricorso, sine infamia sine laude, nozze con una donna del medesimo entourage, il giovane – senza patema alcuno per il futuro, già definito – al termine del percorso scolastico entra nella ditta del padre e lo affianca nel lavoro quotidiano. Ora, alla soglia dei quarant’anni, Marcello Vinciguerra abita le colline fertili delle Langhe, si è costruito una bella villa - che l’affascinante ed eclettica consorte Lulù, divenuta affermata commerciante di arredi di design, governa con amorevole cura (spostando di quando in quando un divano qui, una credenza là, casa di bambole) - guida una macchina potente, veste maglioni di cachemire e, non ultimo il fatto, conduce con più che discreto profitto – un po’ barcamenandosi, un po’ vivendo di rendita - la pregiata azienda ortofrutticola che ha ricevuto in eredità dal padre. E’ stimato tra i dipendenti e i collaboratori, non certo celebrato come lo era il padre, creatore ex novo di una delle più produttive aziende agricole del centro-Italia, ma è datore di lavoro rispettato, dotato di buona professionalità e attento spirito imprenditoriale

La vita di Marcello scorre prevedibile e concreta, senza particolari traumi o imprevisti, complice anche la mancanza di figli (che – informazione preziosissima che l’autore centellina fino allo stremo della curiosità del lettore – non sono stati procreati “per scelta”). La passività di Marcello si esemplifica anche nel rapporto erotico con Ludovica, di cui Marcello subisce le stravaganze, nell’inconscio tentativo di mantenere viva la passione sessuale che deve di necessità rimanere immutata nel suo vigore post-adolescenziale e nella sua solidità di status acquisito, al pari di tutto ciò che di materiale circonda i due coniugi. 
- Il cambiamento e la mutazione, se proprio occorre, debbono avvenire soltanto attraverso canali mediati e secondo schemi preventivati, creati ad arte dal protagonista del cambiamento stesso oppure, ove subìti, socialmente accettati (sia che si tratti di un nuovo oggetto di design appena acquistato ed introdotto in casa – che deve corrispondere perfettamente agli ultimi dettami del lusso e della moda - sia che si tratti di un nuovo ristorante, o di un nuovo fidanzato per l’amica single). 
- E’ il fascino degli oggetti, dettagli all’apparenza insignificanti che invece plasmano e modificano la percezione che noi abbiamo di noi stessi e di chi ci circonda. E’ il silenzio al ristorante d’élite, interrotto soltanto dal soffice brusio dei pochi avventori e dal tintinnio delle posate sul piatto. E’ la poltrona ergonomica sui cui la madre di Marcello ondeggia a gambe all’aria; è una fotografia sovraesposta, tagliata rozzamente e slightly out of focus. E’ il divano boa, oggetto feticcio delle fantasie sessuali di Ludovica, o le tele di De Chirico, che tanta parte hanno nella ricostruzione iconografica dell’immaginifico del quartiere Eurano

- La contaminazione giornalistica ci pare minima, per altro totalmente decontestualizzata dal momento che luoghi, fatti e nomi sono dichiaratamente frutto di un atto di puro estro e mera fantasia artistica. Non si tratta quindi di un’operazione né pedagogica, né di denuncia sociale (*). 
Prova evidente della letterarietà del testo, la tipica ambiguità romanzata del cattivo. “O’ Filosofo”è un camorrista di sanguinaria memoria; ma allo stesso tempo è uno studioso illuminato capace di profonda ironia letteraria, un architetto visionario, una personalità carismatica e affabulatrice. 
Ciò non significa che l’autore di fiction debba necessariamente prendere posizione contro l’impegno civile, ma soltanto che qui, in questo contesto, la camorra sia da intendersi come semplice pretesto, una delle decine di possibili rappresentazioni del reale a disposizione dell’autore, quale strumento di avvicinamento al lettore (e per attirare il lettore). Un escamotage

- Marcello è un autodidatta della ricerca. Si muove rozzamente tra interrogatori surreali, pedinamenti sconclusionati, sopralluoghi improbabili: una moderna telemachia, un viaggio nel dubbio e nel grigio di un’esistenza che si tramuta in uno solo colpo, grazie a (o a causa di) un unico fotogramma passato alla televisione durante un programma di attualità politica, da pragmatica, razionale, comprensibile, evidente, a confusa, insondabile, equivoca, ambigua, ambivalente, metafisica. Il viaggio del figlio alla ricerca del padre, quel figlio che diverrà uomo soltanto dopo aver compreso, ed imparato, ad essere, esattamente, figlio - e padre a sua volta

(*) stesso approccio, piccola nota a margine, che hanno utilizzato con successo almeno altri due autori del Sud Italia che abbiamo annoverato tra le nostre personali migliori letture dell’anno: B Agostini e F Battistella 

lunedì 19 dicembre 2011

"Bambino 44", di Tom R Smith


More about Bambino 44 Lettura di evasione, verrebbe da dire. E' che l'immagine è così vivida, di questo Daniel Craig un po' più sdrucito e un po' meno palestrato dell'originale, ma sempre affascinante, piegato dalle avversità (e che avversità) della vita, che - inutile - si sospira, a metà tra l'ammirazione e l'istinto, tutto femminile, della crocerossina perduta. Cioè, ti fai tutto il film: l'eroe, l'avventura, le avversità, l'immaginifico della contestualizzazione fantastica, il lieto fine.
Peccato che, se messa così, la cosa funzioni soltanto in minima (e misera) parte.
Giacché, dopo le prime 30 pagine di goduriosa illusione, si scopre che:

L’eroe non è eroe per niente, anzi. Leo Demidov (che poi alla fine, non siamo proprio così sicuri neanche sul suo nome di battesimo) è un tipo che per qualcosa come una quindicina di anni si è letteralmente bevuto - e sparato su per il naso – coscientemente e consapevolmente, ogni qualsiasi sostanza possibile, dalla metamfetamina ai jingle di partito: piccoli, innocui aiutini necessari e indispensabili per arrestare, torturare e massacrare senza sforzo e senza rimpianto una pletora di ignoti e anonimi “dissidenti” esterni ed interni al sistema (e i muscoli se li è fatti, deliberatamente, proprio a tal fine).

L’avventura non è poi così avventura, visto che si cita niente di meno che – il tutto rivisitato certamente in chiave letteraria e anacronistica, ma pur sempre “storia vera” – il “Mostro di Rostov”, psicopatico colpevole di aver ucciso, sventrato e divorato decine e decine di bambini/e e adolescenti sovietici, negli anni tra il 1978 e il 1990.

(Nota a margine, come non pensare a questo punto al nostro caro amico Hannibal Lecter, il vicino di casa che tutti desideriamo avere e da cui non pochi hanno avuto l’onore di essere invitati a cena. Clarice Starling chiusa in quella dannata cantina è così vicina da darci i brividi).

Già qui ci sarebbe di cui riflettere, visto che ci stiamo infilando – trasportati a nostra insaputa dalla sapienza dell’autore – nel complicato tunnel della contestualizzazione.
A dire la verità, il dubbio si era già insinuato in noi a partire dall’identificazione geografica, precisa, puntuale, all’inizio di ogni capitolo (CentoKm? Nord, sud? E che bisogno c’è di indicarlo?) ma via, siamo lettori ingenui, possiamo sorvolare, intrippati come siamo da tutto il finto-contestuale che ci assale quotidianamente in libreria.

Peccato che poi ad un certo punto si parli di Seconda Guerra Mondiale (uhm uhm, suona qualche campanello? No, ancora no) e poi di Grande Guerra Patriottica (niente?) e, alla fine, di un certo qual personaggio, tale Jozif Djugasvili, detto, orbene sì, Stalin. E qui se ne vanno a farsi benedire tutti d’un colpo gli altri due punti: avversità e contestualizzazione fantastica.

Perché il paesaggio lunare di gelo glaciale, estati torride, lande desolate e foreste impenetrabili non appartiene a un qualsiasi mondo di fantasia, creato ad arte e misura di romanzo apocalittico post-nucleare, ma a quella misteriosa, antica, nascosta eppur così vasta porzione di terra al di là dell’Europa che prende il nome di Repubblica Sovietica - sempre lì, anche oggi, a tre ore di volo da noi, modifica di status sociale a parte.
Povertà, miseria, fame, carestia, guerra e morte non sono spunti immaginari per una narrazione di pura evasione. Così come non lo sono le tipiche esperienze di urbanizzazione post-Second War: casermoni grigi più simili a carceri che ad abitazioni, strade buie, edifici appena costruiti e già in rovina, vapori mefitici che ammorbano l’aria, treni stipati di passeggeri. Per non parlare di milizia cittadina, polizia segreta, prigioni, camere di tortura, gulag.

Morale della storia: ci piacerebbe, ma spiace, niente compromessi. Né all’esterno, né, tantomeno, all’interno della narrazione.
Nello stesso modo in cui Leo Demidov si trova a dover necessariamente fare i conti con il sistema deviato, innaturale e immorale a cui per tanti anni ha prestato fede, nell’ottica di un’obbedienza cieca a assoluta, il lettore è costretto ad uscire, sdradicato a forza, dall’esperienza confortante della fiction letteraria per affrontare un testo che soltanto a prima vista è solo quello che sembra, ovvero un thriller di spessore, sostenuto da una trama compatta, densa di colpi di scena, scarna al punto giusto, quasi minimale, ma che nasconde in sé l’anima calda della testimonianza politica che necessita di uno schieramento, dell’evidenza dei fatti, del racconto popolare, della Storia. Orribile, atroce, ineluttabile. Naturalmente, lieto fine escluso.

(Nota conclusiva per il pubblico femminile: a fine cott(lett)ura, correggere con una leggerissima spolverata di invidia indiscutibilmente rivolta alla bella e intelligente protagonista, nonché moglie del sopraddetto Craig-surrogato. 
Come dire, oltre il danno la beffa. 
Già, per altro, s’ode in lontananza il commento a metà tra l’inacidito e il velatamente stupefatto dell’ homo sapiens di turno – inteso, proprio homo - eventualmente coinvolto nella lettura, che, all’ennesimo saggio ultrabdominal del protagonista, o di fronte a uno dei suoi più clamorosi coup de théâtre in pieno stile MacGaiveriano, risoluzione inattesa di una situazione di alto pathos drammatico, esclamò scocciato: ma che fiaba. E chiuse lì la questione, con un grugnito di atavica, neandertaliana memoria.

Touchèma è l’arte del romanzo, e non si può prescindere – e perché, se Hannibal Lecter e Clarice Starling avessero preso non le sembianze di Antony Hopkins e Jodie Foster, ma quelle di due meri sconosciuti un po’ flaccidi e scipiti, dite che ci sarebbero piaciuti così tanto come ci sono piaciuti? Ohnno, certo che no. Quindi, dello spettacolo, almeno per questa volta, facciamocene tutti una ragione. Ne vale la pena).

martedì 6 dicembre 2011

"La cavalcata dei morti", di Fred Vargas

More about La cavalcata dei morti A far da antitesi ad un mondo in cui, nel bene e nel male, ciò che vale pare essere spesso quel particolare tipo di brillante capacità inventiva che, tuttavia, capita che talvolta trascenda in parola da celebrare necessariamente (ebbene sì, anche via twitter) attraverso l’esternazione e la visibilità mediatica - a far da antitesi si diceva è il lento movimento silenzioso, adagio ma non troppo, del Commissario e della sua armata Brancaleone.
Ciurma che si desteggia, più reattiva che PRO-attiva, tra le avversità della vita a mano a mano che esse si presentano, non un momento prima, come dire a dire che lo smazzo preventivo è pressoché inutile di fronte alle avversità del destino, ma più spesso, forse, molti momenti dopo (ove il “dopo” è effetto, quasi sistematico, di cellulari dimenticati spenti, sveglie mai suonate, clamorosi colpi di testa emotivi, sbronze, abbioccamenti clandestini durante l'orario di lavoro e varie altre del genere medesimo).

E così, per stessa ammissione dell’autrice, ciò che sembra non è mai ciò che è, in un continuo gioco di specchi e di prospettive multiple. La squadra di Adamsberg è composta da “(…) uno affetto da ipersonnia che crolla addormentato sul più bello, uno zoologo specialista in pesci, di fiume soprattutto, una bulimica che scompare per fare scorta di cibo, un vecchio airone esperto di leggende, un mostro di cultura che non si schioda dal vino bianco, e via di seguito” (pag.83). Peggio di così, vien da dire, non si potrebbe. Eppure, alla fine ci si salva sempre – non è detto che le ammaccature non ci siano, per amor del cielo – ma ci si salva perché ognuno è in qualche modo artefice, con le sue, personali peculiarità, di quel pezzettino di destino che poi Adamsberg finisce, non si sa mai come, per incastrare a mo’ di tessera di puzzle.
Come quella antica favola secondo cui il serpente non sarà bravo a volare, ma striscerà meglio del coniglio, che invece darà il suo meglio nel salto e nella corsa ma che ben volentieri lascerà al passerotto il compito di cinguettare a squarciagola.

Adamsberg e Danglard – e di riflesso, Fred Vargas, Sibilla d'Oltralpe – tentano di restituirci un mondo che, nella sua “regionalità” peculiare, vuole sfuggire alla globalizzazione del presente, almeno per taluni aspetti più vicini all’identità dell’Uomo in senso lato.

Danglard è il custode della tradizione orale, della leggenda, della narrazione popolare che quasi mai diventa (vedi sopra alla voce “visibilità mediatica”) erudizione sterile e semplice celebrazione del superego. Danglard ci racconta – lievemente annebbiato dai fumi dell’alcool, che quasi sempre lo accompagnano, in una sorta di estasi bacchica perenne (sacrableu, vino bianco per altro) - di annedoti, leggende, memorie: a flusso continuo, producendo una quantità di notizie abnorme, evidentemente esagerata dall’autrice il cui intento precipuo è l’identificazione del personaggio attraverso l’iperbole e l’esemplificazione di un certo tipo di vissuto.

Adamsberg è, tra l'altro, l'uomo del piacere fisico che prima ancora di esplicarsi con il sesso (vedi in questo caso la bella Lina) si esprime nel cibo. Mai viene a mancare, contestualizzazione del testo e suo inserimento all'interno di una dimensione “regionale” territorialmente marcata, la citazione culinaria: qui abbiamo zuppa di carote e spezzatino alla panna (vitello e fagioli, con il profumo del fuoco di legna), calvados e zollette di zucchero, e per finire, in un connubio di gusto, tatto e olfatto, il kouglof con mandorle e mele.

Veyrenc per stavolta ci piace ricordarlo così – che ci volete fare, al cuor non si comanda, con buona pace di Danglard (è che c'è la storia dei capelli rossi, e il pericoloso sorriso da ragazza, quindi non stiamo a cantarcela sotto la doccia: il ragazzo, ormonalmente, disturba assai) - in piedi nell'erba alta, a tre metri da Adamsberg, seduto sotto al melo, intento a giocare a golf con delle piccole mele da sidro. La mattina è limpida, ancora umida di pioggia, il sole si infrange obliquo tra i rami. Chapeau.

Da dire, incredibile come Camille, ahinoi, non ci sia mancata quasi proprio per niente. E noi che pensavamo il contrario. Forse compensata dalla notevole presenza scenica di uno Zerk in splendida forma, quasi un Adamsberg ante litteram, un flashback su un giovane Jean-Baptiste con lo sguardo sempre per aria, l’occhio acuto fisso su dettagli quasi insignificanti (quasi), magliette e calzoni di misura sempre troppo grande, infilati su alla bell’e meglio e uno spirito di adattamento da far invidia a Reinhold Messner. 
Che dire, noi facciamo il tifo per lui.