Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

mercoledì 23 marzo 2011

"Uccellino del paradiso", di Joice C. Oates

More about Uccellino del paradiso I bambini di JCO sono, quasi sempre, bambini abusati. Prima nello spirito e poi, non di rado, anche nel corpo.
C’è questo rumore di fondo, continuo, sordo, martellante, di infanzia rubata, patita, sofferta. Ce l’hai nelle orecchie fin dall’inizio.

Le diciotto ruote degli autotreni che scorrono sull’interstatale – il rombo attutito dai vetri sporchi di un fast food per camionisti, che arriva a far da contrappunto al cuore in subbuglio, tachicardico, di un’adolescente spaurita, ostaggio del padre ubriaco, incastrata a forza nello spazio angusto di uno dei tavolini nascosti tra luridi separé;
il fracasso di motori e attrezzi all’interno di un’officina meccanica, lo stridio della sega elettrica nella ditta di costruzioni edili;
ma anche i colori dell’ardesia degli stabilimenti abbandonati - silenzio ritmico di una campagna incolta - osservati attraverso il finestrino della macchina dagli occhi chiari di una bambina silenziosa costretta ad ascoltare, suo malgrado (con quell’attenzione all’apparenza distaccata, ma ricettiva e costante tipica dell’infanzia) il delirio di un padre sconvolto e ubriaco; uno stream of consciousness alcolico, delirante, a senso unico, alla stregua di un’autoradio gracchiante;
lo scricchiolio della ghiaia sotto le ruote delle biciclette, lo sferragliare dei treni lungo i binari della stazione abbandonata, meta prediletta dei tossici e dei bulli di quartiere; e, sopra a tutto, il continuo, inesorabile borbottio del Black River.

Ogni tanto credi di averlo perso, questo brusio di sottofondo, ma poi quando meno te lo aspetti lo ritrovi, puntuale e ricalibrato - arte della scrittura e dell’immaginazione - nella complessità narrativa di un testo che fa dei rimandi uditivi il veicolo privilegiato per una comunicazione tra autore e lettore che risulta attiva, biunivoca e dirompente perché reale, concreta e, come al solito, iper-contestualizzata.

Krista Diehl è la figlia defraudata dell’adolescenza, vittima di riflesso, condannata non solo dall’ingiustizia subìta, oggettiva e perpetrata dagli organi che invece, quella giustizia, dovrebbero tutelarla e difenderla, ma anche dal biasimo e dalla meschinità della comunità locale e dal livore di una madre ferita nell’orgoglio, palesemente incapace di affrontare le responsabilità della vita adulta. E Krista Diehl tanto più risulta credibile nel ruolo quanto meno se ne mostra consapevole, di questa sua esistenza ai limiti della normalità.
Come se il suo provocatorio rivaleggiare a pallacanestro contro ragazze chiaramente più grandi e più prestanti di lei – che sistematicamente la lasciano a terra con gli arti dolenti per le botte e la pelle piena di lividi e graffi - fosse questione naturale da archiviare con un’alzata di spalle, catalogando il tutto con etichetta “quel che va fatto per crescere” (come vorrebbe il padre Eddy – per propria comodità o mera incapacità di analisi) e non, come appare evidente ad occhi adulti consapevoli, un tentativo inconscio di purificazione catartica - il veleno del dolore dell’animo risucchiato all’esterno, come la tossina del morso della vipera, attraverso le ferite (in qualche modo auto inflitte) del corpo.
Come se la sua ossessione verso Aaron Kruller non avesse quale significato e giustificazione intrinseca – come Krista stessa concluderà, al termine del romanzo – la ricerca disperata e vana del confronto con quelle figure maschili che, chi per un motivo (il padre), chi per l’altro (il fratello) hanno abbandonato vita e responsabilità familiari nel momento più critico.

Sicché, a differenza di altre giovani adolescenti complessate, così abili a mostrare e descrivere i propri stati d’animo, con acume e spirito critico lievemente in contrasto con l’età anagrafica denunciata dall’autore / autrice del romanzo di cui sono protagoniste indiscusse, Krista Diehl non fa mistero della sua totale ignoranza in materia.
Krista Diehl è un fastello di contraddizioni, un vulcano di emozioni che neppure lei, come è giusto che sia, sa spiegare e contenere.
Tant’è la presenza dei molti virgolettati e corsivi, nella parte del libro a lei dedicata, a riportare “parole da grandi” (come spesso succede nelle opere di JCO, si veda “Sorella mio unico amore”) di cui Krista non padroneggia il significato, limitandosi, pedissequamente, ad una ripetizione volutamente goffa e incerta.

Krista Diehl è bambina impaurita innamorata di un padre gigante, dalle mani grandi e forti, partito troppo presto per un luogo dal quale non è mai più tornato; è figlia negletta e dimenticata da una madre sconvolta, sepolta viva sotto l’onta del tradimento che trascina con sé, a valanga, il senso di colpa, il peso del fallimento, la riprovazione sociale.
E’ adolescente alle prime armi, donna acerba quotidianamente fuori posto negli abiti e nel corpo minuto, dalla fragilità intrinseca e disarmante.
Solo che di tutto questo, Krista Diehl, nella sua ingenuità di bambina non ancora cresciuta, non ha coscienza, semplicemente perché, come è giusto che sia, data l’età, non ha ancora fatto propri gli strumenti atti ad una lettura consapevole (e che verranno dopo, attraverso le esperienze della vita).
E’ il lettore, a cui la Oates affida il ruolo di osservatore critico attivo, e non di mero fruitore del testo, a dover applicarsi nella puntuale decodifica dei messaggi nascosti.
Il lavoro di rilettura più difficile deve essere operato sulla figura di Eddy Diehl, il padre fedifrago, reo confesso dell’accusa di tradimento coniugale, il crimine più vergognoso che l’Uomo Perbene possa compiere all’interno del microcosmo della comunità sociale di appartenenza.
Lui, il WASP, l’americano medio: menomato reduce di una Guerra Giusta (una leggerissima zoppia, in realtà, caricata di un significato più grande di quanto effettivamente dovrebbe avere, particolare non da sottovalutare); onesto cittadino e lavoratore responsabile - ricordiamo in proposito l’orgoglio della moglie di fronte alla targa dozzinale, in simil-legno, appesa alla porta dell’ufficetto prefabbricato, che dimostra l’ascesa sociale del marito passato dal lavoro manuale di falegname a quello, di concetto, del capo cantiere; cappellino da baseball, lattine di birra e SuperBowl.
La Oates lascia in sospeso il giudizio univoco sull’uomo per stemperarlo in decine di complesse microanalisi, tante quanti sono gli occhi di chi lo osserva e di chi ha a che fare con lui nel corso del vivere quotidiano; di chi, come naturale, conserva ed esalta gli aspetti buoni, coerenti con il proprio vissuto, e rigetta, in un meccanismo inconscio di autodifesa e negazione, ciò che di stridente e difficile permea il carattere dell’individuo con cui, di volta in volta, si pone in raffronto.
Per Krista e Ben, Eddy Diehl è padre amorevole, forte figura di riferimento; ma è anche, ci dice Krista in un soffio, giusto qualche frase seminata qua e là, briciole di Pollicino che sta a noi raccogliere, un uomo rude, poco incline alla comprensione e all’empatia; un padre padrone (ed è proprio qui, che JCO insinua il sospetto) che a volte emana un sentore di birra neppure così vago e che, in certi momenti, per altro abbastanza frequenti, non permette né accetta il contraddittorio e men che meno le “domande scomode” (la guerra, la menomazione alla gamba, l’intimità del corpo, la morte).
Per Lucille, casalinga orgogliosa dedita all’educazione dei figli e al mantenimento della casa, Eddy è Marito e Padre Ideale, testimonianza vivente di un successo sociale a lungo cercato e finalmente conquistato. Che importano - relegate in un angolo della memoria cosciente – tutte quelle assenze ingiustificate, il puzzo di alcool, l’indifferenza verso il corpo della moglie?
Per i parenti, Eddy Diehl, un bell’uomo dall’aspetto massiccio e rassicurante, possiede un carattere forte, vigoroso, da vero leader.
Per la famiglia Kruller e per alcuni conoscenti, è soltanto una “testa calda” da cui stare lontani.

La questione è che tutte noi, in qualche modo misterioso che ha del poetico, nonostante la violenza, lo squallore e la povertà, siamo piccoli uccellini del Paradiso.
Lo è Krista, nella sua ingenuità di bambina tradita.
Lo è Lucille, nella sua perfetta ignoranza del mondo, persa, morta e sepolta, nella vana ricerca di un American Dream idealizzato e impossibile da recuperare, semplicemente perché mai esistito.
E lo anche, e soprattutto, Zoe Kruller, cosce e seni torniti in un corpo minuto e sensuale, messa in piega e permanente dorata, talento, energia e brama di esistere.

Uccellini del Paradiso da cullare e proteggere – e, nel caso, da lasciare andare, aprendo le mani verso il cielo senza rimpianto alcuno. 

martedì 8 marzo 2011

"David Golder", di Irene Némirovsky

More about David Golder E' inutile. Da qualsiasi parte lo guardi, David Golder ti provoca sempre un senso di fastidio.

Il fatto è che non è solo fastidio, è proprio irritazione; e, francamente, della peggiore specie; via, altro che politically correct, evitiamo le balle e diciamoci la verità. Cioè, delle volte sei proprio lì lì per mollarlo, eh, al suo marcio destino, David Golder – ché tanto, lui, alla fine, ci arriva lo stesso e vuole per altro arrivarci da solo, quindi, tanto vale.
E un po' ti incavoli anche con l'Irene, che con la consueta leggiadria e strizzatina d'occhio (ma che è, ci è o ci fa? - e il dubbio ti viene pure) ti mette lì sul piatto un personaggio di tal fatta a) di cui non te ne può fregare di meno perché cosa c'entriamo noi con un tipo del genere b) così fastidioso che se non riesce ad ammazzarsi da solo, quasi quasi avresti voglia pure di dargli una mano.

Ora. Questo tipo è vecchio. Brutto, tarchiato, segnato nel corpo da decenni di fatiche e stenti: denti marci, capelli un po' di qui un po' di là, rughe sparse; forse ha pure un po' di gobba, così ce lo immaginiamo, tanto per quel che vale. Fuma sigari che immaginiamo puzzolentissimi, avrà, Gesù, un alito da spavento e quell'odorino acre e penetrante di chi si lava poco (visti i tempi...).
Per altro, è sì ricco sfondato, ma è talmente messo male che forse se lo trovassi in giro gli allungheresti pure qualcosa, per lo spavento. Palandrane scure, lise dagli anni, un portafogli di cuoio le cui due parti manca poco che rimangano insieme solo perché legate tra loro con un pezzo di spago; sguardo cieco piegato su candele morenti e libri mastri e carte indecifrabili, fino a notte fonda, nel freddo di una stanza mal riscaldata.
Per altro, la prima impressione non è certo fugata da quel che vien dopo.
Questo Golder pare un farabutto di prima categoria, uno che non esita, in nome di che cosa non si capisce, ad approfittare delle (evidenti) difficoltà, personali d professionali, del socio (ventennale) a cui non le manda sicuramente a dire. E siccome non c'è limite al peggio, quello, vittima della depressione, della sfavorevole congiuntura economica e della terribile conversazione notturna avuta con il sopracitato Golder, che – da gran signore - non gliene ha abbonata neanche una, tornato a casa pensa bene di ammazzarsi buttando all'aria famiglia e affari.
Ora, ricapitoliamo: brutto, vecchio, sporco, e pure una gran carogna, chè al funerale del socio (suicidio di cui si potrebbe definire il mandante) non fa altro che lamentarsi delle condizioni meteo maledicendo “la gran cavolata” - come definisce, twitterando, la bella idea del socio – che gli sta facendo perdere ore preziose, anzi preziosissime, per gli affari e le contrattazioni. 
L'immagine edificante è completata da due vecchietti bavosi al pari suo che, chiusi nelle palandrane nere, non fanno che maledire funerale e pioggia e caro estinto il di cui ultimo scherzetto (postumo) – interpretazione delle più fantasiose – sarebbe la polmonite fulminante a cui avrebbe esposto i “cari” amici accorsi al sepolcro.

A questo punto non si salverebbe niente. Date le premesse, dicevamo.
Senonché, proprio, a smettere di leggere non ce la fai. E' questione che ma sì, ancora un paragrafo, giusto per concludere. Sicché poi vai avanti ancora per una decina di capoversi e poi pensi che, data l'entrata in scena della Sig.ra Golder (toh, si capisce, poi, perché volevano trarne una trasposizione teatrale e pure cinematografica), allora è lecito continuare ancora per qualche altra pagina così da terminare il capitolo.
E' che poi quando meno te lo aspetti arriva Joyce e il danno è fatto, non si torna più indietro. Così la rabbia monta e stai sempre peggio perché ti accorgi che l'Irene, ancora una volta, ha fatto il suo gioco e tu hai un bel dire, ad accampar scuse, sì il lettore protagonista, sì la scelta consapevole, sì la fruizione meditata del testo. La questione è che ancora una volta quella lì ti ha preso e rigirato come un calzino e tu non te ne sei neanche reso conto. O meglio, te ne sei accorto troppo tardi.

C'era quella storia in Harry Potter, quella dello specchio dimenticato. Quello specchio che ti faceva vedere, alla fine, quello che TU volevi vedere, e niente altro. O forse quello che NON avresti mai voluto vedere. Ecco perché David Golder ci sta proprio sull'anima, e però non possiamo fare a meno di seguirlo per vedere dove va a finire. Attrazione e repulsione.

David Golder non è interessato al denaro. Ne possiede? Probabile. Però lo prende e lo reinveste, buttandosi a capofitto in imprese disperate. Lo perde al gioco, turbinio di fiches impegnate, gettate via, riprese, rivendute, senza sosta, fino all'alba. Si circonda, per volere della moglie, di arrendamenti lussuosi, appartamenti e ville di cui non si cura e che non gli sono di nessun conforto né materiale né morale. Corre da un capo all'altro del mondo alla ricerca dell'affare perfetto; affare perfetto che non troverà mai, perché l'importante non è il fine, ma la corsa, che David Golder ha il terrore di abbandonare. Una malattia, l'infermità, finanche la morte, ecco l'uomo nero che attanaglia i disturbati sonni notturni di David Golder.
E non solo i suoi, a dire la verità, ma pure i nostri.
Noi, quelli che di fronte a quella terribile agonia di lacrime e solitudine non possiamo fare altro se non rabbrividire di orrore e raccapriccio, trascinati e persi (ah, il lettore consapevole, padrone di sé? Come no) nel profondo di una Russia atavica, crepuscolare e così definita, precisa, nei suoi rimandi letterari di Tolstojana memoria.

La miseria, da cui la moglie Gloria, vissuta la gioventù negli stenti e nelle privazioni, ora rifugge come la peste. La vecchiaia, la bruttezza, l'anonimato (anche sessuale – ovverosia l'essere non-desiderabile) per la figlia Joyce.
E' questo, quello che la famiglia Golder scopre nel fondo dello specchio, osservandosi attentamente. E non si può dire che l'Irene qui non ne abbia per tutti noi. (vedi punto a sopra – che ci azzecco io con David Golder).
Come è per Gloria, nata e cresciuta nella miseria e nella fame, che antepone - interesse di vitale importanza - la creazione e la conservazione dello status symbol familiare (Mulino Bianco docet) a qualsivoglia forma di affetto sia filiale, sia coniugale, così è per Joyce che, abbandonata ogni peculiarità propria, intima, non diviene altro – spersonalizzandosi - se non una delle tante ragazzine, in tutto e per tutto identiche, di quelle che popolano le spiaggie più chic di Biarritz, alla ricerca di emozioni forti, uomini prestanti e avventure mozzafiato. Il terrore di tutte le anti-Bella Swan: la spersonalizzazione. Ma anche, al rovescio, lo spauracchio di tutte le cheerleaders del mondo: la pardita della popolarità e la discesa verso gli inferi dell'anonimato.

E poco importa che David Golder sia ebreo. “Casualmente”, è pure ebreo (e da qui tutta la querelle sul presunto antisemitismo del libro). Ma poco ci prende, giacché l'Irene quello aveva a disposizione, e mica altro, e quindi, di necessità virtù. Che alla fine, non è che Golder per altro sia così “ebreo” - se la vogliamo proprio vedere da questo punto di vista. 
Anzi, forse è così messo male proprio perché in qualche modo vi ha rinunciato, all'ebraismo – o a qualsivoglia - che nome vogliamo dare, qui, alla questione - credo religioso, fede nell'Umanità? E sempre qui ritorniamo.

giovedì 3 marzo 2011

"L'affare Kurilov", di Irene Némirovsky

More about L'affare Kurilov Quasi una sorta di “testamento etico”, che l’Irene consegna nelle mani del marito Michael, cui l’opera (datata 1933) è dedicata. Racconto cupo e pieno di spavento, a far da padrona la grande Russia degli zar al culmine della decadenza e tutto un contrappunto di ossimori a evidenziare di come, nella vita di ogni giorno come nelle questioni di Storia, la demarcazione tra etica e politica; morale, giustizia e dovere; affetto filiale e devozione verso la propria famiglia di adozione (sia essa il “partito” o lo Zar) sia – quasi sempre - tutt’altro che netta.

E così, ecco le stragi degli studenti in piazza acquistare una fisionomia più completa, trasformandosi da mattanze prive di qualsivoglia significato agli occhi stupefatti del popolo ignaro, in genocidi tremendi dettati da un senso del dovere distorto dall’abominio del servilismo, perpetrati da vecchi oligarchi malati, abbandonati al proprio destino, terrorizzati a loro volta dagli ordini secchi e perentori impartiti da sovrani ormai avulsi da ogni contesto politico e sociale.
Lo sguardo di ghiaccio del Ministro, che il popolo soggiogato dovrebbe considerare quale prova evidente di un potere saldo e incrollabile, si distorce, nel privato di una stanza buia ricolma di Madonne (quasi ad invocare un inutile postumo perdono), nel grido muto di un delirio tremebondo fatto di incubi, febbri e terrori.
Il corpo massiccio, pesante, stretto nelle divise di tessuto pregiato arricchite dall’oro e dalle pietre preziose, una volta liberato dei vestiti rivela ciò che la stoffa nasconde: carni deboli, sfatte e morenti di un uomo già condannato dal decorso inesorabile di una malattia che non risparmia né ricchi né poveri.
La vita scintillante della corte, tanto agognata dai poveri sudditi, è smembrata dall’interno in tutte le sue viscere fatte di favoritismi, invidie, malignità, ritorsioni, vendette, e pare che a nulla valgano – o meglio, pare che non siano di nessun conforto – le fini porcellane francesi, la mobilia raffinatissima, le dimore di campagna, i gioielli, la musica e le danze.
Contrasti stridenti, si diceva, ma anche evidenti parallelismi. Il destino segnato del giovane Léon, che “appartiene al partito per nascita”, alla pari di quello della giovane Irina, costretta suo malgrado ad un matrimonio di convenienza.
E poi, la malattia: i fiotti di sangue della tubercolosi che affligge Léon e la misteriosa tumefazione negli intestini di Kurilov: entrambe divorano i corpi dall’interno, mangiandoli con sfiancante lentezza in un alternarsi insostenibile di remissioni e recrudescenze.

Ancora: la cultura, lo studio, le lingue, su un piano diverso e parallelo che abbraccia non solo vicende personali e storia patria, ma anche il costume e la società.
Alla corte degli zar e nei palazzi del potere si parla non soltanto il russo più adeguato, ma anche – e molto più spesso - il francese e il tedesco. Si studiano le opere dei più talentuosi scrittori europei, si ascolta musica, si apprezza l’arte figurativa e il teatro. Tuttavia questa supposta, e celebrata, “internazionalità” (leggi alla voce… globalizzazione?) non è strumento sufficiente al rinnovamento di una classe dirigente saldamente ancorata a sovrastrutture sociali e culturali totalmente estranee al mondo europeo a cui si guarda con crescente fervore.
Al contrario, ma in parallelo, i rivoluzionari apolidi per nascita, come Léon, oppure per necessità e scelta, come Fanny, acquistano sì una vasta e fisica comprensione del mondo basata sull’esperienza (anche drammatica) di vita; esperienza “sul campo” che tuttavia non è corroborata e sostenuta da alcun approfondimento personale, teorico e culturale, e che rischia quindi di scivolare nella parzialità e nel fanatismo, se mal guidata (attenzione qui al ruolo dell’intellettuale – dei giornali, delle riviste, della letteratura in genere, nella formazione delle “masse”, tema tanto caro all’Irene degli ultimi periodi).

Ad entrare e uscire da questi mondi paralleli, il “medico” Legrand, incaricato dell’uccisione del ministro, unico punto di contatto tra due realtà entrambe distorte, impraticabili e di impossibile risoluzione.
Unica scelta possibile, la fede nell’Umanità, di cui l’Irene si fa portatrice, in tutte le sue opere e fin sul treno che la condurrà ad Auschwitz-Birkenau.