Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

venerdì 30 agosto 2013

"Abbiamo sempre vissuto nel castello", di Shirley Jackson

Più riguardo a Abbiamo sempre vissuto nel castello L'ultimo fine settimana di agosto va celebrato. E per farlo degnamente, vi consiglio Shirley Jackson.

Valente giornalista (The New Yorker) e scrittrice, nasce a San Francisco nel 1916 e muore nel 1965 per un improvviso attacco cardiaco. Effetto collaterale, forse, degli psicofarmaci di cui si serviva.
Un personaggio piuttosto particolare, un'anima di talento ed estro notevole, esemplificato nei suoi lavori letterari che, pur focalizzati su temi e generi ben precisi, non mancano in versatilità, spaziando dalla narrativa per bambini (Nine Magic Wishes), al racconto lungo (i più noti: La Lotteria – 1958; L'incubo di Hill House – 1959; Abbiamo sempre vissuto nel castello – 1964), al teatro. Tutte opere che l'hanno resa, per stessa ammissione dei diretti interessati, musa ispiratrice di Stephen King, Neil Gaiman, Richard Matheson.

Che cos'è "We Have Always Lived in the Castle". Per gli amanti delle classificazioni, lo si potrebbe ascrivere in primis tra gli horror di ispirazione gotica, perché gli ingredienti ci sono tutti: dal delitto principe, ossia quello della camera chiusa (per altro tanto attuale nella narrativa di genere, anche se declinato con modalità differenti) al maniero in decadenza, simbolo di antiche vestigia e fortune sperperate. Potremmo pensare anche al mystery e al paranormale: la narrazione strutturata secondo le linee guida del punto di vista interno, aderentissime alla norma, aiuta assai.
Eppure tutte le classificazioni scivolano, lasciando insoddisfatti. Questo accade per un semplice fatto: perché "We Have Always Lived in the Castle" è l'opera zero, quella da cui, in un certo senso, tutto parte.

Abbiamo una narrazione che da subito inquieta, un incipit folgorante in cui la protagonista, prendendo perentoriamente la parola, spiega se stessa ai commensali (ops) invitati al banchetto letterario offerto dall'autrice; e lo fa con una tal grazia rovente di leggiadria letteraria da sminuzzare in un solo colpo tutte le descrizioni violentemente cinematografiche a cui ci siamo un po' assuefatti ultimamente:

“Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott'anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l'anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leon e l'Amanita Phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della famiglia sono tutti morti.” (p9)

Shirley Jackson non necessita di grandi invenzioni o effetti speciali. Si limita ad esercitare la raffinatezza della sua arte narrativa, focalizzata sull'analisi psicologica. Sottogenere: la malattia mentale, argomento del quale probabilmente non è digiuna.
La forza della scrittura della Jackson è tale perché dell'argomento principe, l'analisi di una psiche corrotta e dei suoi effetti (ecco perché autrice così cara a SKing, che le dedica “L'incendiaria”) ce ne rende partecipi fin dalle prime battute, adottando il punto di vista della protagonista che, da interno qual è, resta per definizione stessa imparziale, profondamente inattendibile. 

Ci troviamo prigionieri di un castello di ombre e specchi dentro cui la scrittrice/protagonista si muove da padrona: nella camera chiusa di una cucina antica, in un maniero in rovina, e in parallelo, tra i meandri di una narrazione in cui il lettore è soltanto spettatore. Vittima di un refrain inquietante e surreale, il lettore affronta a poco a poco il dramma e l'incubo della malattia mentale, aiutato da una struttura volutamente a-temporale che trascina verso uno straniamento e una dissociazione dal reale sempre più evidente e profonda. La dimensione dello spazio tempo è dichiaratamente distorta e incongrua: l'azione è sicuramente ambientata negli Stati Uniti, ma il periodo storico ci rimane ignoto, come rimane ignoto agli occhi di Mary Katherine. Ci sono automobili e frigoriferi, ma parliamo di una casa di campagna vecchio stile, ricca di broccati e passamanerie nei cui bei salotti i membri della famiglia, vestiti di tutto punto, si ritrovano per cena o per essere intrattenuti dal dolce suono dell'arpa della bella figlia maggiore Constance. Le stagioni vanno e vengono e profumano di natura, ruscelletti limpidi di campagna, erba di giardini e sole estivo, che illumina la bella villa dei Blackwood e i terreni fertili che la circondano: un non-luogo che solo alla fine si rivelerà in tutta la sua crudele e tragica realtà. 

E' in particolare la psiche infantile ad essere oggetto di analisi (nota a margine, siamo sempre al grado zero, ripreso anche ultimamente): dalla figura della protagonista fino al gruppetto dei monelli del villaggio, autori del ritornello di cui sopra, che conficcano a cuneo (come nei migliori SKing d'annata) nella mente e dei personaggi del dramma, e in quella del lettore:

“Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto vieni.
Fossi matta, sorellina, se ci vengo mi avveleni.
Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?
In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire” (p27 et al.)

Atmosfere anni '30 che ci ricordano un testo un po' più recente, ma egualmente inquietante: "La casa per bambini speciali di Miss Peregrine, di Ransom Riggs

D'altra parte, cosa ci si può aspettare dall'autrice di una piece teatrale dal titolo "The Bad Children", adattamento della favola di Hansel e Gretel?

Buona lettura :)

venerdì 23 agosto 2013

"Niceville", di Carsten Stroud

Più riguardo a Niceville Il 28 settembre 2011, poco meno di due settimane prima dell'annuale kermesse di Francoforte, tutti gli editori presenti all'evento culturale simbolo della “Mainhattan” europea ricevono via email il primo capitolo di un romanzo intitolato “Niceville”, a firma anonima. Il giorno successivo arriva il secondo capitolo, e poi il terzo.
Il passaparola dirompente – perché i tre capitoli sono davvero interessanti - produce una reazione a catena che fa del titolo una delle novità più contese dalle case editrici europee (ma non solo) e il successivo battage pubblicitario (compreso booktrailer e website dedicato) lo rende uno dei casi letterari più commercializzati dell'anno. Mistero anche sull'autore, che si rivela soltanto dopo più di un mese dall'exploit di Francoforte: Carsten Stroud, di natali tedeschi ma residente in Canada, già scrittore, sia da solo sia insieme alla moglie, di racconti e romanzi vincitori di diversi premi letterari.

Gli ingredienti per il successo – o per lo meno, per la creazione di un caso letterario – ci sono tutti, e tutti compresi in quei primi tre capitoli che l'autore aveva circolato con incontestabile abilità e un pizzico di furbizia.
Ci troviamo (pare) di fronte ad un thriller di stampo moderatamente classico. 
Siamo a Niceville (Nic-EVIL-le), tranquilla cittadina del profondo sud degli Stati Uniti. Prati verdi e curati, edifici in stile, antiche famiglie fondatrici (nota a margine, pare in voga ultimamente l'ambientazione urbana circoscritta, una sorta di "camera chiusa" socialmente allargata dentro cui nulla è così come appare). Il detective Nick Kavanaugh, ex militare dell'esercito, coadiuvato da una squadra ben fornita – e ben dettagliata - di colleghi e subalterni indaga sulla sparizione di un ragazzino di dieci anni, Rainey Teague, misteriosamente “svanito” a metà del tragitto tra casa e scuola.
Peccato che le telecamere di sicurezza di un negozio di anticaglie presso la cui vetrina si era intrattenuto alcuni secondi mostrino delle sequenze inquietanti che poco hanno a che fare con un rapimento “da protocollo”. Peggio ancora quando il bambino viene ritrovato dopo alcuni giorni nel cimitero cittadino, vivo ma in stato di shock, sepolto dentro una cripta che appare incongruamente sigillata da decenni.
Un anno dopo, il detective viene chiamato ad indagare su altre due sparizioni che presentano tratti inquietanti perché comuni al caso Teague.
Nel frattempo, due poliziotti corrotti si organizzano per rapinare la filiale di una nota banca nazionale, per un bottino di oltre due milioni di dollari e quattro omicidi a carico. Intanto, dall'altra parte della città il tale Tony Block, marito violento e misogino, appena condannato per stalking nei confronti di moglie e figlia, si appresta a compiere la propria, personale vendetta "against the world".
Tutti avvenimenti soltanto a prima vista scollegati l'uno dall'altro.

CStroud osa quel che pochi hanno tentato - e ancora meno sono gli autori riusciti a colpire nel segno (uno su tutti, SKing) - : ossia mescolare il genere del thriller (sottogenere: poliziesco) con quello dell'horror (sottogenere: ghost story).
Ne risulta un ibrido fortemente instabile, piegato com'è a metà strada tra una risoluzione della trama che passa attraverso la spiegazione logica del reale e la morale comune (nel caso del sottogenere poliziesco impersonata dai tutori della legge e forte di una struttura consecutivamente chiara e riconosciuta), e tra, al contrario, una mescolanza di avvenimenti paranormali che hanno come obiettivo proprio il disallineamento della struttura narrativa di partenza e l'accettazione di ben determinati codici propri della narrativa fantastica.

I puristi di entrambi i generi potrebbero storcere il naso – e l'hanno fatto, visti i giudizi sul web, specie quelli italiani (che sono stati i primi, visto che Longanesi si era aggiudicata per prima i diritti di pubblicazione). Eppure è innegabile l'estrema funzionalità del testo: lineare ed equilibrato, riesce a mantenere sempre alta la tensione senza sacrificare le parti descrittive, strizzando naturalmente più di un occhio alla cinematografia, in puro stile USA. 
Non ultimo il fatto che in certi punti CStroud stupisce per l'acuto senso ironico (la scena del padre ubriaco che sistema in mano al figlio un tosaerba, vista con gli occhi di uno dei protagonisti, è magistrale) e per la profonda (pare) conoscenza di autori e opere, sia letterarie sia cinematografiche, di spy-thriller.

Chiaramente il testo va affrontato senza pretesa di immedesimazione: siamo di fronte a un divertissement estivo, per altro neppure così leggero, data la quantità di rimandi interni e personaggi (nota a margine: munitevi di un taccuino o inviate una email alla casa editrice con preghiera di un summary a inizio testo) cui dovrete prestare la massima attenzione. Eh sì, perché non ve la caverete così, sforzandovi di arrivare alla fine (e ci arriverete, non riuscirete comunque a mollare prima): perché, what a surprise, non stiamo parlando di un romanzo autoconclusivo, ma di una trilogia: il secondo volume, "The Homecoming", è già pronto, e il terzo, "The Departure", in lavorazione.

D'altra parte, chi ci provò a fare il mischione cinematografico, con gran successo, fu Chris Carter, “già” nel 1993. Che dire poi del duo David Linch / Mark Frost? Il tormentone, se ve lo ricordate, è datato 1990.

Buona lettura :)

lunedì 12 agosto 2013

"I Dodici", di Justin Cronin

Più riguardo a I dodici Io ve lo consiglio, il sequel di “The Passage”, semplicemente perché Cronin riesce nell'impresa e sarebbe un peccato perdersela, l'opera di questo dotato discepolo di Stephen King.

Il testo affascina: per impianto narrativo, trama, linguaggio.

Cronin ama immergere il lettore in una orchestrata trama di piani temporali sovrapposti che intreccia e organizza con abilità, guidandolo sapientemente tra rimandi di luoghi, tempi e protagonisti le cui correlazioni tra loro sono o rese subito evidenti o – molto spesso – lasciate in sospeso, affidate all'abilità del fruitore del testo che Cronin rende quindi parte attiva all'interno del processo narrativo.
La tecnica del flashback (e del flashforward) offre la possibilità, sia all'autore, sia al lettore, di gestire lo sviluppo dei personaggi e i conseguenti collegamenti, mentre l'espediente narrativo della narrazione esterna, utilizzata a tratti, attraverso l'inserimento di stralci di finta documentazione ufficiale risalente ad un periodo successivo a quello in cui si sviluppa la narrazione e di piccoli spoiler relativi ai personaggi principali, aiuta il lettore nella gestione della trama distopica creando coinvolgente aspettativa e suspance.

La narrazione trova un suo valido equilibro tra scene di azione ben congegnate e parti descrittive. Queste ultime dimostrano l'inconsueta abilità di uno scrittore evidentemente a proprio agio all'interno di quella sub-parte della narrativa fantascientifica più specificamente apocalittico-distopica che necessita, per mantenere credibilità e struttura, di una parte narrativa forte e particolareggiata, ma equilibrata e strategicamente ben sviluppata: in questo, Cronin ha imparato la lezione, studiando non solo Matheson e McCarthy ma anche il più datato Ballard, creando un mondo distopico dalle caratteristiche concrete e reali, mai eccessive, ridondanti o inutili per l'economia della trama, e per questo coinvolgenti e appaganti per il lettore che non se ne sente infastidito.

I personaggi sono tutti, protagonisti e comprimari, ben delineati e traspare evidente l'attenzione, per non dire il fascino, dell'autore nei confronti della parte negativa rappresentata dai dodici individui, le creature frutto dell'esperimento militare drammaticamente fallito le cui conseguenze devastanti Cronin ha immaginato, e raccontato, nel primo volume. Fascino che non si limita ad un superficiale apprezzamento “cinematografico” ma lo travalica nel nome di un'intima com-passione verso il genere umano e le sue debolezze.

Nota di merito alla traduzione di GL Staffilano: si apprezza perché, mai anonima, rende appieno la dinamicità della narrazione senza perdere in compostezza e varietà, in un crescendo di aggettivazione sempre attenta e puntuale, e fluidità nell'organizzazione e nel mantenimento della struttura sintattica originale.

Nota a margine: il perché dell'etichetta #booksformums, nonostante la mole: perché in #ereader funziona. La lettura scivolerà e grazie alle numerose suddivisioni tra capitoli e paragrafi si adatterà agilmente a tempi ristretti. Provare per credere.

Buona lettura :)