Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

domenica 17 febbraio 2013

"Villa Metaphora", di Andrea De Carlo


Più riguardo a Villa Metaphora  Ovvero, delle corrispondenze. Curioso che negli ultimi periodi la letteratura rifletta spesso sul tema che stiamo per analizzare – quello del “reality show” - quasi che il sentimento dominante sia un certo qual “sentirsi in gabbia” dovunque e comunque, che come inevitabile conseguenza conduce all'approccio psico-socio-geografico nel tentativo di risolvere la questione (leggi: uscirne vivi e in salute). Perché la formula è, incredibilmente, sempre la stessa: 
  1. prendi un gruppo di individui, meglio se di classi sociali differenti, 
  2. rinchiudili all'interno di uno spazio ben definito, 
  3. crea un bel diversivo che irrompa nella routine quotidiana con la stessa violenza di una molotov lanciata a tutta velocità: 
  4. e vedi cosa succede. 
Molto prima c'era stato JGBallard, con due opere della maturità, meno fiabesche e più consapevoli malgrado l'ambientazione ai limiti della fantascienza: "SuperCannes" e "Il Condominio". Da ultimo, Aravind Adiga con il suo “L'ultimo uomo nella torre”. 
E poi arriva DeCarlo, con Villa Metaphora. 
  1. Quattordici personaggi, di varia caratura sociale e morale, professione, cultura etcetc ospiti - ma anche dipendenti - di un lussuoso resort abarbicato sulle coste impervie di un isolotto immaginario perso nel Mediterraneo più estremo, ultimo baluardo a difendere l'Italia dall'Africa e raggiungibile solo via mare. DeCarlo ne ha per tutti (al pari di AAdiga): c'è la stella del cinema holliwoodiano, bella, giovane, talentuosa, intossicata da alcool e pasticche; c'è uno dei più alti rappresentanti del gotha finanziario mondiale che attende, leone in gabbia, il verdetto che segnerà il suo destino, a seguito di un gravissimo scandalo sessuale di cui il pluridecorato professionista s'è consapevolmente macchiato. C'è un distinto, anziano e malato imprenditore del Nord, accompagnato dalla moglie fedele, a rappresentanza di quella borghesia italiana “all'Agnelli” che tanto ha influenzato l'economia e la società italiana dal dopoguerra agli anni Ottanta. E diversi altri ospiti che vi lasceremo scoprire da soli. C'è pure il cuoco dalla fama internazionale, curriculum di prestigio e stipendio a sei zeri, celebrato esponente di quell' “estremismo gastronomico” che tanto impazza tra i vip; per non parlare della manager del resort, giovane autoctona fuggita anni prima sul continente dopo aver ripudiato luoghi d'origine e affetti, alla ricerca di se stessa e di un affrancamento sociale, o del falegname-artista, una figura maschile tipica e quasi sempre presente nella letteratura decarliana. Anche qui, diversi i personaggi che lasceremo al vostro studio. 
  2. Insomma, ce n'è per tutti (noi), perché sono chiare ed evidenti le corrispondenze tra il personaggio che vive all'interno del romanzo, contestualizzato e particolare, e il suo alter ego che, dall'esterno della realtà quotidiana, in esso si rispecchia. Se la starlette americana rappresenta una tipica gioventù - made in USA ma in rapida espansione pure nel vecchio continente - talentuosa anche, ma inficiata da un ego ipertrofico, parto deforme di quel “tutto subito” tanto caro al mito del selfmade americano, neanche a dire quale sia l'immagine che il banchiere tedesco senza scrupoli ci rimanda dallo specchio fatato della pagina decarliana. Cosa ci manca poi, la politica? Voilà, ce l'abbiamo: ecco a voi l'italianissimo onorevole di turno, un bel giovanotto di grandi speranze, un WASP de no' artri che più provinciale di così non si può (uh, le sentiamo quasi, le sue vocali aperte da bravo lumbard, ancora lì, belle presenti nonostante i corsi di dizione): lo vedete in tutto il suo splendore, intento nell'azione di lavarsi la mano destra con la sinistra autogiustificando la propria condotta pubblica e privata e adducendo, come fine ultimo dell'azione, il Bene Patrio. 
E così via, in un continuo gioco di rimandi bidirezionali e concatenati. Per dire, ne peschiamo uno a caso: Lara, madre irlandese e padre italiano, aiuto-scenografa capitata per caso sull'isolotto a seguito dell'attrice di cui sopra conosciuta sull'ultimo set cinematografico, è alla ricerca incessante di se stessa e delle proprie origini, in contrapposizione non solo alla giovane e pluripremiata attrice ma anche a Lucia, la manager scappata sul continente, e poi all'estero: lei che delle proprie origini ad un certo punto non ne ha voluto sapere proprio più nulla; lei, innamoratasi poi del bell'architetto di fama internazionale, autore del progetto e della realizzazione del resort, tutto muscoli di palestra, abiti taylormade e tecnologia ultimo modello, che a sua volta non possiamo non porre a confronto con il falegname-artista che vive di lavori precari e che di necessità ne ha poche o nessuna (evoluzione, per altro, del personaggio di Durante, degno erede, sìsì, di quel Guido Laremi là, esponente estremo della categoria “maschio decarliano – romanzi della gioventù”). 
Per ogni personaggio, uno specifico stile narrativo, appena ammorbidito dallo stile decarliano, sempre riconoscibile nonostante le varianti. E così abbiamo: la lingua colta, raffinata, liquida e leggera dell'imprenditore del Nord; lo stream of consciousness lumbard dell'onorevole di spicco, che non rinuncia alla verve del comizio neanche quando parla con se stesso allo specchio del bagno; il francese melodico e controllato della giornalista in incognito, che a sprazzi tuttavia cede al sentimentale e all'emotivo, e infine il registro forse più riuscito, quello di Carmine, il marinaio tuttofare che parla una lingua artificiale autoctona credibile e immediata nella sua finta semplicità. 

3 (e 4.) Sono tanti i temi trattati da DeCarlo, che affida a questa sua diciassettesima fatica letteraria una urgenza comunicativa evidente ad ogni pagina. Il reality show inizia qui, nel momento in cui, per motivi vari che chiaramente non anticipiamo, allontanarsi dall'isola sarà difficile, se non impossibile, in un crescendo di situazioni disagevoli sia psicologiche sia, soprattutto, pratiche, che faranno virare la storia dal farsesco della satira sociale al catastrofismo. DeCarlo insomma scende nell'arena e forse per la prima volta si misura con la realtà esterna, tralasciando per un momento quella visione dell'esistenza così intimista che caratterizza la maggiorparte delle sue opere. 
Quel che ne esce è un'analisi della realtà, profonda ed equilibrata, che tocca gli aspetti più caratterizzanti della vita moderna e del disagio che essa porta con sé, sia a livello individuale, sia collettivo e sociale. 

Un'opera “per giovani” dunque – target forse rivoluzionario per DeCarlo – che tuttavia non scade mai nell'epidittico. Si tratta piuttosto di una serie di riflessioni personali che DeCarlo, attraverso il pretesto del romanzo, ha avuto il merito di saper codifcare e plasmare, ad uso e consumo di quanti vorranno affrontare la fatica di queste 900 pagine scritte fitte: il successo sociale, per esempio, identificato nella persona (personaggio) del divo chiacchierato, bello e dannato, del potentissimo banchiere, dell'imprenditore, del selfmade men di foggia americana, del politico di chiara fama; oppure l'utilizzo dei social networks, che DeCarlo mostra di conoscere alla perferzione nonostante la sua fama di scrittore refrattario ad alcuni di questi specifici strumenti di comunicazione moderna, che per certi versi frammentano l'attenzione, scardinano dal profondo le regole sostanziali che differenziano la comunicazione privata da quella pubblica, e creano dipendenza. Oppure ancora, l'utilizzo di forme d'arte e di stili di vita che, sicuramente mutuati dalla realtà dell'esperienza umana, delle origini non conservano che poche gocce di succo annacquato (si va dall'estremismo culinario del cuoco di gran fama volto a denigrare l'esperienza carnale dell'assunzione del cibo – alla quale, inevitabilmente, si tornerà - fino all'esasperazione per il culto del corpo, in un tripudio di orientalizzazione della fatica fisica che poco aiuterà nel momento del bisogno, perché così disgiunta dall'essenza della materia). 

Vi lasciamo con una immagine evocata dalla giornalista in incognito Simone Poulanc quando oramai la vicenda dei quattordici naufraghi volge al termine: 
Eccoci alla degenerazione di rapporti tipica delle situazione ad altissimo stress. Eccoci all'abbandono di ogni freno inibitorio, all'esplosione dell'aggressività primaria incontrollata. Eccoci quasi alla **Zattera della Medusa** (…). Quasi cinque metri per sette. Il Cinemascope di allora. Così i buoni borghesi parigini potevano andare a contemplare l'abisso del dissolvimento delle regole sociali e la degenerazione dei rapporti umani – la regressione abominevole – e poi tornarsene alle loro confortevoli abitazioni” (pp844-45) 

http://it.wikipedia.org/wiki/La_zattera_della_Medusa - Théodore Géricault

Buona lettura :)

martedì 5 febbraio 2013

"La Fine", di Salvatore Scibona


Più riguardo a La fine Dieci anni di lavoro culminati in 389 pagine da affrontare con cautela e rigore. Ecco cos'è “La fine” di SScibona. Non è una novità del panorama editoriale italiano (anno di pubblicazione il 2011) ma un testo che può essere colto nella sua essenza soltanto quando il momento lo consente. Ecco del perché ha atteso un po', nella libreria di ADC.

Data la densità e il vigore dell'opera non stupisce che l'autore - italoamericano di Cleveland classe 1975 (laureatosi in scrittura creativa presso l'Università dell'Iowa e attualmente impiegato presso il Fine Arts Work Center di Provincetown) - con “La Fine” sia arrivato, nel 2008, ad un passo dal National Book Award e poi, l'anno seguente, si sia aggiudicato il Young Lions Fiction Award e il Whiting Writers’ Award. E poi inserito nella prestigiosa classifica del «New Yorker» tra i venti migliori scrittori americani sotto i quarant’anni.

Dieci anni fa Scibona soggiornò a Roma “per imparare la lingua”, quella dei suoi antenati, che non aveva mai parlato (conosceva soltanto un po' di dialetto malcongeniato). Scese fino in Sicilia per incontrare parenti mai visti e decriptare le loro storie, in un miscuglio di parentele inestricabili, dialetti incomprensibili e memorie perdute di nonni e zii e nipoti scomparsi nel nulla, inghiottiti dal profondo abisso di quell'oceano che venne a separarli, da migranti. Lo incuriosirono soprattutto queste storie di perdita e di abbandono spesso volontario, una sottospecie – per così dire – di tutte quelle vicende di migranti in terra d'America di cui tanti autori ci hanno narrato; come quella della bisnonna, (riproposta poi nel romanzo) che giovanissima aveva abbandonato la casa del padre per seguire l'innamorato statunitense e che non aveva più dato notizie di sé ai parenti lontani.

Epperò, attenzione. Non aspettatevi una delle “solite” epopee italoamericane a cui siamo abituati, con un inizio, uno svolgersi e una fine, tanti comprimari, qualche protagonista eroico e una contestualizzazione di grande impatto emotivo, tra povertà, miseria e desiderio di affrancamento sociale. Lo capiamo già dalla prima pagina, uno stream of consciousness, questo sì, potente e paradigmatico, ad opera di uno dei protagonisti, Rocco il panettiere, che nel giorno dell'Assunta, il 15 Agosto del 1953, mentre nel quartiere italoamericano di Elephant Park, a Cleveland, la folla accaldata intasa le strade e si prepara al passaggio della sacra processione, decide di abbassare la saracinesca del suo negozio (fatto mai accaduto sino a quel momento), e mettersi a riflettere sulla propria vita passata, presente e futura.
Così, in un gioco di relazioni spazio-tempo spesso soltanto intuibili e attraverso esperienze del tutto soggettive Scibona ci presenta tutta una galleria di personaggi in qualche modo correlati, concatenati l'uno con l'altro, che che riflettono, si atteggiano e agiscono in maniera tale da formare un qualcosa che potrebbe (potrebbe) essere identificato come una trama. Ma questa trama, a differenza delle più canoniche epopee di migranti che conosciamo, non è così pregnante per l'economia e la buona riuscita dell'opera: è, in parte, piuttosto anche un prestesto. O meglio, un mezzo.

Di che cosa si parla, qui, alla fine? Si fa presto a dire. Di un padre panettiere (emigrato dall'Italia) abbandonato dopo 15 anni da moglie e figli spariti nel nulla della provincia americana, uno dopo l'altro, alla ricerca di una vita migliore (o di una morte onorevole, a servizio della Nuova Patria). Di una anziana, distinta signora di origini siciliane, scappata in America da giovanissima, per amore, che ora si dedica ad attività illecite per puro spirito di compassione. Di uno stupro. E di molte altre cose, e persone ancora.

Questa densità di materia, incastrata e gestita tra tempi e spazi diversi e intersacati tra loro da continui e perentori flashback & forward, ha due meriti sostanziali: rendere il lettore consapevole di sé e del suo ruolo attivo all'interno del processo di fruizione del testo (leggi: caro lettore, te ne devi fare una ragione, qui si tratta di roba difficile da affrontare) e creare un lavoro letterario che sì certo si basa su fatti reali, poi chiaramente romanzati, ma che non cede in alcun modo né al fascino tentatore del “raccontare gli oggetti” (la via pià facile, per l'autore di epopee generazionali, per ricercare il coinvolgimento del lettore attraverso una contestualizzazione fittizia, perché si basa sulla descrizione maniacale dell' “accessorio”: oggetti d'uso quotidiano, abitazioni tipiche, abiti, professioni...), né al tono popolare, o moraleggiante, o didascalico, o – peggio – strappalacrime (materiale già visto, già usato, già abusato, non facciamoci distrarre dal particolare, ci farebbe notare Scibona).

E' questione che la fascinazione del testo non si basa in realtà neanche solo sul mezzo. Eh sì, stiamo parlando dello stile narrativo. Stream of consciousness a parte, che è gestito secondo i più rigorosi canoni del genere, la capacità visionaria di Scibona impressiona, l'ossessione per la purezza liquida della lingua seduce, smembrata di ogni sostanza e attributo e poi ricomposta in un continuo lavoro di lima e cesello che pone il lettore al centro dell'esperienza del leggere: il Lettore, lì a godersi la propria fatica fisica che di necessità gli occorre per rimanere legato alla pagina, malgrado, paradossalmente, non se ne riesca a staccare nonostante l'indubbia asperità del testo. 

La forza del testo sta nella capacità che l'autore ha mostrato nell'identificare l'universalità.
I personaggi presi in esame, che narrano le loro vicende private tra molte reticenze, omissioni più o meno consapevoli ed esplicite, punti di vista assolutamente parziali, incompleti, spesso stravolti dall'emotività e distorte nel ricordo dal trascorrere degli anni, sono tutte legate assieme dallo stesso fil rouge: il dolore dell'emigrante, che viene dalla perdita e dall'abbandono delle proprie origini e della propria storia sia personale sia familiare, il senso di smarrimento per una realtà aliena mai del tutto compresa (per senso) e codificata (per lingua), e soprattutto la necessità, un sentimento di dolore quasi fisico, di conoscere – o per lo meno riuscire ad immaginare - identificandolo fra le mille connessioni quotidiane e imprimendolo nella memoria - il proprio futuro, ossia la propria fine. Che, non c'è storia che tenga, deve passare, inevitabilmente, attraverso l'accettazione del sé.

Nota di merito al traduttore Beniamino Ambrosi: "La Fine" deve essere stata una sfida di non facile risoluzione.

Buona lettura :)