L’uso
regionale delle forme, grammaticali e sintattiche, porta
all’esemplificazione di una varietà d’uso che pochi raffronti ha
con la letteratura di altri Paesi europei.
Si
parla sia di strutture grammaticali intrinseche alla locuzione, e
quindi spesso neppure così mediate dalla consapevolezza metodologica
(struttura paratattica, utlizzo della relativa), sia di
lessico a bassa distanza strutturale con le forme più piene del
dialetto, che nell’italiano regionale vengono smussate della loro
crudezza espositiva - attraverso il confronto quotidiano con la
lingua italiana - mantenendo tuttavia il significato pregnante dell’espressione
dialettale.
L’italiano
regionale è la lingua dei profumi e dei sapori. E’ la lingua della
nostra arte culinaria, fatta di ingredienti e materie che tutto il
mondo ci invidia. Verdure, frutta, farine, pane, olio, formaggi,
introdotti con arte subito al principio del racconto, così da
permeare poi - come il profumo del ragù della domenica preparato da
mamma, che senti già dal letto, quando ti svegli - tutte le pagine
della narrazione.
“Fritto
misto all’italiana” (zucchine tagliate finissime, fiori delle
medesime, pezzettini di ricotta secca, bocconcini di mozzarella –
pastella, uovo, farina e pan grattato – pag 50)
“Verso
le due sedettero a pranzo (…). (…) servì la minestra maritata e
le salsicce con i friarielli, belli amari e in stagione” (pag 85)
“(…)
servì uno splendido babà al rum fatto con le sue mani e mise una
bottiglia di limoncello ghiacciata al centro della tavola” (pag
137)
“(…)
poi arrivarono le tracchiolelle al sugo spesso e le scarole all’agro”
(pag 204)
Ma
è anche la lingua della della festa rurale, della tradizione del
racconto orale, della leggenda e della superstizione religiosa, di
cui le carte sono l’emblema.
“(…)
girava voce che la proprietaria, una certa signora
Cecere, fosse molto brava a fare le carte. Subito le donne di
famiglia si erano agitate (…). (…) sarà una vecchia megera –
aveva commentato girando lo sguardo all’intorno – già me li
immagino tutti e due in quella specie di antro della Sibilla. E poi,
agitando le mani nell’aria: abracadabra! aveva esclamato,
suscitando ilarità” (pag 193-194)
E’
su questo terreno fertile che nasce e si sviluppa la vicenda di Maria
Consiglia Cecere, che ha il merito della linearità del giallo ben
congeniato e della rappresentazione corale.
Maricò,
la protagonista, si muove in un teatro tutto suo, un’umanità varia
composta di una vecchia zia secca, incanutita e saggia (e qualche
curioso scheletro nell’armadio), tre pensionanti, zitelle e
arrapate (jeans aderenti cacciati su a forza, a coprire girocoscia da
salumeria, vestiti neri di pizzo e crinoline al sapor di naftalina),
un affittuario trapiantato dal lontano Nord (per la serie, al Sud
piangi due volte, quando arrivi e quando parti), tutto borbottii,
Corriere della Sera e vocali aperte; la sorella Fausta, regina
indiscussa della scenata napoletana, col marito Gennaro e i quattro
figli maschi, Cavalieri dell’Apocalisse.
E
poi, prinicipi caduti in disgrazia, uomini di fatica, portieri,
cuoche, fantesche, in una girandola senza capo né coda di voci,
colori, profumi, pietanze. Per non dimenticare tutti coloro che non
ci sono più ma che in qualche modo vivono ancora con noi: don Cecè
e i suoi quaderni sgualciti e forieri di sventura; donna Serena,
passata a miglior vita dopo lunga malattia, che ritroviamo, spirito
gentile e delicato, nel blu ceramica delle tazzine del caffè e nella
cotone inamidato, oramai un po’ liso ai bordi, delle salviette da
bagno; e nelle visioni notturne di Maria Consiglia.
Non
può mancare poi il Bello che Non Balla, lui, il poliziotto senza
macchia e senza paura, il figurino che così tanto, che
dite?, somiglia a Rodolfo Valentino.
E
non può mancare nemmeno, come in tutti i gialli che si rispettino,
il vero Cattivo.
Perché ci sono cattivi di molte fogge e misure: c’è
il tirapiedi del tirapiedi, sempre pronto al voltafaccia, viscido e
grassoccio, la faccia pingue e il colorito giallastro, che tanto
parla ma nulla stringe. C’è il furbetto azzimato, il politico
corrotto, l’immobiliarista senza scrupoli.
E,
alla fine, c’è pure quello di cui devi avere, davvero, paura. E’
il male nella sua accezione più pura: ambiguità, buio, ombra,
freddo. Assassinio, violenza, sangue, tortura, morte.
Il
Male pefetto crogiola nella sua malvagità assoluta vagando nella
penombra di stanze che profumano di legno e mobilia di pregio.
Avvolto in caldi completi di antica e rinomata tradizione sartoriale,
cena con pietanze sofisticate, degne della migliore arte culinaria
regionale.
Si
circonda, per convenienza, dei peggiori malavitosi, a sue volte
vittime sacrificali della sua cupidigia, lussuria, lascivia.
E
di scheletro nell’armadio, quel Male lì, ne ha uno vero, altro che i colpi di testa amoroso-adolescenziali di zia Concetta; è uno scheletrino
minuscolo, di bambino, che riposa laggiù, in cantina, murato
nell’umida muffa del cemento e del laterizio.
“Re
di Bastoni, in piedi” è una di quelle storie da raccontare ai
bambini, alla fine di un lungo pranzo domenicale, quando fuori
comincia a far buio; sul tavolo, bottiglie di vino dolce finite per
metà, biscotti, zucchero, briciole e tovaglioli ripiegati alla
meglio. Dal tinello, il volume basso del televisore, sintonizzato
sulle partite di serie A.
Perché
c’è tutto: la protagonista, l’eroe, il lupo cattivo, l’orrore
della morte, la speranza. Ma c’è anche la verità del reale:
un’Italia bella e sofferente; viva e concreta, in perenne
mutamento, come la sua lingua. Magia.
NB:
per approfondimenti rimandiamo i lettori che hanno avuto la pazienza di seguirci fino a qui all’Iliade Napoletana, che tanto ci
ha appassiona (a breve, arriverà qualche nota sul terzo, conclusivo volume). A testimoniare la vitalità, e la
compresenza di tematiche linguistiche e di soggetto, che
caratterizzano tanta parte della letteratura italiana di oggi.