Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

giovedì 21 luglio 2011

"La centrale", di Elisabeth Filhol

More about La centrale La Francia è vicina, vicinissima, si può toccare con un dito. Venti che calano da Nord-Est, superano le Alpi e arrivano fino a noi. Quello stile asciutto, evocativo, vedo non vedo, fatto di sensazioni e pensieri, più che di azioni.

Impensabile l’idea di affrontare il testo come un’opera compiuta, conclusa, fatta e finita. Perché gli interinali del reattore, un inizio e una fine non ce l’hanno: se ne vanno da una parte all’altra, senza continuità alcuna, né di ruolo, né di tempo. “La centrale” è un buchino di serratura, e questo ci deve bastare. Un qualcosa da cui sbirciare, spiraglio di una porta mal chiusa da un bambino distratto. Un film già iniziato e il buio in sala. 
La vita di Yann, per il lettore, non ha né un inizio né una fine. Dobbiamo accontentarci di episodi accennati, di storie a metà, di persone che incontriamo e che poi, così quasi per caso, vengono abbandonate, perse, e poi magari ripescate dall’oblio del ricordo e del tempo. Persone di cui non sappiamo nulla di più di quello di cui l’autrice ha voluto metterci a parte, pace all’anima nostra.

E che ci possiamo aspettare, dal lavoratore interinale del Moloch-centrale che tutto inghiotte, fagocita, tritura e poi sputa. La “carne da atomo” non ha residenza alcuna, visto che i luoghi di domicilio sono quelli votati, per definizione stessa, alla precarietà dell’esistenza: campeggi, roulottes, case prefabbricate, container, motel, finanche sedili posteriori delle auto. I coinquilini poi sono individui sconosciuti, che oggi ci sono, e condividono con noi schiscetta, chiacchiere, silenzi e radioattività, e domani non ci sono più, inghiottiti dalla strada interstatale lunga e dritta verso una nuova (e sempre vecchia, come già vissuta) opportunità professionale, o dal Moloch. E’ la condizione del lavoratore moderno e precario, aggravata dalla particolare situazione carica di rischi, sottintesi e inquietudine. Non troppo diversa, per la verità, dall’inquietudine che attanagliava la mente (e i polmoni) del bis-prozio “Gigetto” (all’anagrafe, Pierluigi Maria), emigrato in Germania, lavoratore stagionale nelle miniere di carbone della Rhur (mandare soldi a casa, buttar giù due righe al mese per moglie e figli, fare il possibile per rimanere in salute). E’ che si sperava che 60 anni di industralizzazione di massa e progresso condiviso ci avessero cambiato la vita ma a quanto pare non è così.

Con un’aggravante. Quello dell’immagine e della focalizzazione. Diversamente dal mondo nero ed evidente, sassoso e ferrigno dei bacini siderurgici della Ruhrgebiet, descritto nella sua immediatezza di vista, udito, tatto e olfatto nelle lettere del bis-prozio, fogli striminziti a righe di scuola, piegati e ripiegati con accuratezza quasi maniacale, quello della Centrale è un mondo asettico, intangibile, ingannevole. Tutto è bianco latte, pulito, quasi sterilizzato. La centrale rifulge sotto il sole della campagna. Dalle ciminiere, un filo di fumo quasi trasparente, innocuo. L’acqua delle piscine di raffreddamento è azzurra. Di un azzurro puro, trasparente, brillante, sintetico, perfetto. Vien voglia quasi di farsi un bagno, lì dentro.
Si indossano tute pressurizzate, caschi, occhiali, doppi, tripli guanti. Involucro spesso, guscio di tartaruga, che dovrebbe proteggerci dall’atomo e dal sentimento. Solo che la cosa non funziona, in nessuno dei due contesti. La permeabilità inevitabile al sentimento si rispecchia nella vita nomade che solo all’apparenza è libera e scevra da qualsiasi vincolo: in realtà il pegno si paga con lo sradicamento dalla propria terra, dalle famiglie, dai figli, dagli amici, dalle tradizioni. Della permeabilità all’atomo neanche a parlarne, simboleggiata qui non dall’intangibile (troppo facile), ma da un qualcosa di fisico, sensibile, evidente ai sensi, eppure così inerme nella sua minuzia: un dado di acciaio staccatosi da chissà quale alloggio.

Al di là delle impicazioni politiche, per le quali vi rimandiamo alla rassegna stampa sul web, la Filhol ci catapulta, controcorrente rispetto a tanta parte della letteratura moderna, nel mondo (così umano) dell’imprevedibile e consegna nelle nostre mani una verità che vale la pena considerare: per quanto l’Uomo (moderno) pianifichi, coordini, definisca, concretizzi ciò che considera il Mondo, quello in cui ritiene degno e necessario vivere, attraverso procedure rigide ed efficaci, sistemi di controllo e verifica, non sarà mai in grado di eliminare del tutto, malgrado gli sforzi, l’area dell’UNCONFORTABLE, quella zona d’ombra del non calcolato, dell’imprevisto, dell’inatteso.

Ps. Sentiti ringraziamenti al “signore riccio” dello stand Fazi (Torino 2011) che ci ha aiutato nella ricerca di “quel libricino francese con la bella foto in bianco e nero in copertina e l’autore che ha il cognome che inizia per F”. A lui, i complimenti per la pazienza degna di un santo, a noi l’award “il bibliotecario perfetto 2011”.

mercoledì 20 luglio 2011

"Chiedi e ti sarà tolto", di Sam Lipsyte

More about Chiedi e ti sarà tolto Chiedi e ti sarà tolto. Del perché riflettiamo sul titolo. Perché la Morale della Storia è una sola: se alzi la mano domandando (timidamente, anche) che qualcuno – solitamente, il responsabile, “owner” della questione – si impegni a risolvere una situazione critica o di disagio che ti affligge, sta’ sicuro che arriverai a stare peggio di prima e non verrai a capo di nulla, per il consueto adagio, saggezza popolare di nonni lontani, del si stava meglio quando si stava peggio.
Andiamo con ordine.
  • Ho chiesto chiarezza ed etica ai miei colleghi e ai miei superiori, e mi sono trovato disoccupato. No, non solo disoccupato. Disoccupato e ricattato, con una grana da risolvere di quelle che alla classica sòla lavorativa del venerdì pomeriggio questa qui je fa ‘ un baffo;
  • Ho cercato di definire il rapporto con mia moglie (sabbie mobili profonde e insondabili) arenato, prosciugato (sic) chissà dove tra divano, tv e cure parentali, e tutto quel che ne è uscito è un certo Paul, nel letto del quale mia moglie si sente tutto tranne che prosciugata (sic);
  • Ho parlato con amici di vecchia data, gnocche compagne di college e parenti stretti. Io, che mi credevo un uomo virile, di età matura, padre di famiglia, marito impegnato e responsabile, ho scoperto di aver interpretato, per anni, agli occhi degli altri di cui sopra, il ruolo del tipo scialbo, sfigato, nerd, e diciamocelo, pure un po’ viscido e per niente atletico. E il bello è che quel ruolo, quello di sfigato cronico, lo ricopro tutt’ora;
  • Ho cercato di instaurare con mio figlio un vero rapporto di affetto, condivisione e complicità, e tirando le somme ho scoperto poi con orrore che, malgrato le fatiche e l’impegno, il geniale nanetto quattrenne si ritrova ad avere più interessi in comune con il sopraddetto Paul piuttosto che con me.
Insomma, Milo Burke è l’Uomo allo Specchio. Uno specchio malefico e infingardo. Perché questi “altri”, con cui Milo Burke desidera confrontarsi così spasmodicamente, chi sono?

Dunque. C’è l’artista incompresa che altro non è se non la consueta figlia di papà, e di talento non ne ha nemmeno quel tanto che basta per buttar giù a matita la lista della spesa sulla carta del pane. Ci sono i datori di lavoro, gente senza scrupoli, militarizzata, pacca sulla spalla e scopa di saggina pronta e stretta nell’altra mano. C’è il collega affamato di successo, che sembra così equilibrato e consapevole di sé ma che poi, alla sera, anziché tornare a casa (visto che una casa non ce l’ha) si rifugia in uno scantinato polveroso che condivide con altri suoi pari, sistemandosi per la notte nel suo loculo personale, una gabbia di tre metri per due arredata con un materasso sporco e poco altro, pagliericci di fortuna, promiscuità e lerciume. C’è una moglie fedifraga che, per altro, fa poco o niente per nasconderlo. C’è pure un bambino di età prescolare in balia di un gruppo di educatori di infanzia ecologisti radicali, maniaci e scriteriati, e di una babysitter col vizietto degli stupefacenti. E c’è una madre che a 70 anni e rotti ha giusto scoperto la sua vera indole e, dopo un matrimonio tradizionale durato decenni, ora divide la casa con una compagna giovane, palestrata e abbronzata, strafregandosene alla grande del suo ruolo di madre e nonna, un ruolo che, secondo Milo, una volta che hai acquisito non dovresti più perdere per strada - e di vista. E c'è l'alter ego di Milo: Purdy. Bello, ricco da far spavento, appagato dalla vita (pare) e dalla professione, circondato da lusso, amici veri, donne meravigliose (a loro volta belle, ricche da far spavento, appagate dalla vita eblabla).

E quindi? Dov’è la “normalità”? E’ questione che forse non c’è. Che poi, alla fine, non ci resta che riderne. Ma di una bella risata, intelligente, spontanea, viva, una risata che ha il sapore del passato, di quelle storie yiddish, quelle più vere e sagge, quelle che col sorriso ti fanno pensare. Quelle che raccontavano i nonni e gli zii, attorno al tavolo, tovaglie immacolate e cose buone da mangiare, calde e dolci, sui piatti. E magari pensarci su, ogni tanto, senza prendersi troppo sul serio.

Lettura veloce e continua, se no si perde il filo della narrazione, e un consiglio: vi rimandiamo anche alla preziosa analisi della cover ad opera di Who’s the Reader, qui.