Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

martedì 14 giugno 2011

"La cena", di Herman Koch - "Tigre, tigre", di Margaux Fragoso

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Talvolta le fiabe ci raccontano di orchi e mostri paurosi nascosti sotto al letto. Sono brutti e cattivi, non ci si può sbagliare: hanno il naso a punta con un bel foruncolo sopra, come la befana, gli occhi maligni, l’alito mefitico e l’ascella pezzata. Magari hanno pure ali e zanne, sono sbudellatori pelosi, creature venute da un altro pianeta che sa di buio, freddo e crudeltà. E fanno le peggio cose: ti aspettano al limitare del bosco, ti saltano addosso e ti succhiano via tutto il sangue dal corpo; fanno la guardia sotto il materasso, acquattati nel buio tra libri e matite dimenticate, fiocchi di polvere e pezzettini di biscotto avanzato, per poi entrare a piedi nudi – scalpiccio di zampette umide - nei tuoi sogni di bambino e riempirli di incubi e sudori freddi.


Il problema è quando l’orco e il mostro pauroso hanno la faccia bella e pulita di un amico fidato, di uno zio o di un fratello. O peggio, di un figlio.

Succede quando le fiabe non sono più tali e ci raccontano il mondo che abbiamo intorno, un mondo di cui non ci siamo mai accorti, o che abbiamo fatto finta di dimenticare. Quando il male (e qui Biancaneve fa da apripista, con la sua strega cattiva che da matrigna bellissima agli occhi del padre, nell’antro segreto si trasforma in strega malvagia, ali di pipistrello e trucco bistrato, per poi cedere, per incantesimo, all’iconografia della vecchietta curva e zoppa, bisognosa di aiuto) muta forma e aspetto e da evidente e riconoscibile, pur senza cambiare sostanza, recupera il suo status di inganno e ambiguità.
Il male come scarto del punto di vista, come deficit dell’osservazione e della percezione sensoriale, un punto di non ritorno fisso al margine dello sguardo. E’ questo, a far più paura a noi grandi, più del mostro peloso, più del vampiro assetato di sangue.

E così il bravo Peter, fisico sportivo, reduce di guerra, sobrio, educato, a modo, falegname tuttofare, così affabile con i bambini tanto da ottenerne pure diversi in affido, non è altro che il mostro stupratore, il pedofilo incallito, il viscido energumeno che in un perverso gioco di ricatti e sensi di colpa si appropria della vita di quelle bambine, siano esse figlie naturali, in affido, o semplicemente vicine di casa, come Margaux, che abbiano la sfortuna di pestagli i piedi per strada. E così Michael, adolescente di ottima famiglia, educazione spartana e amicizie altolocate nella civilizzatissima Danimarca, patria dei diritti umani, dell’uguaglianza e dello stato di diritto, si rivela un delinquente di infima risma che, insieme al cugino coetaneo, passa le serate in giro per i quartieri di periferia a pestare e ammazzare barboni (e in certi casi, se tira il vento giusto, pure a dargli fuoco) filmandosi con il telefonino.

In entrambi i casi la paura per noi è atavica, perché non identificata. Non c’è mostro, non c’è vampiro, non c’è genio del male contro cui scagliarsi per una catartica, salvifica caccia alle streghe. Le colpe di Peter sono i fallimenti dei genitori di Margaux, della scuola e della famiglia; le colpe di Michael sono quelle della società moderna, dell’apparenza ad ogni costo, della politica come spettacolo quotidiano, scandalo sessuale, esaltazione del potere e del denaro fine a se stessa. Censo e status sociale non contano; da una parte, la depressione dell’enclave portoricana: disoccupazione, alcolismo, malattia mentale, prostituzione, droga, bande giovanili e desiderio di rivalsa. Dall’altra, upper class, ristoranti di lusso, professori universitari, politica, sport, attività filantropiche ma anche droga, violenza, prevaricazione.

Anello di congiunzione, una scrittura agile, veloce che:

- da una parte, (“La cena”) ha il merito di una sintesi feroce, da bisturi, più simile al canovaccio di un racconto lungo (l’arte del togliere e del sottinteso) che a quella di un romanzo; la trama prende forza da una narrazione serrata, costretta in poche ore e in uno spazio unico, teatrale: il palcoscenico buio, un tavolo apparecchiato al centro, illuminato (così com’è il ristorante, una scatola di vetro e acciaio che risplende adagiata nell’oscurità della natura circostante) da un cono di luce violenta. In scena 4 personaggi raccontano, ognuno, la propria verità, e le immagini scorrono su uno schermo alle spalle dei commensali: il video incriminato, riportato su youtube e in televisione; la campagna elettorale del Premier, i flashback della voce narrante. A finire, il marito, in piedi, solo, (il tavolo vuoto, in disordine, sparecchiato alla bell’e meglio) e immobile a raccontare l’epilogo.

- dall’altra (“Tigre, Tigre”), ha le fattezze di una scrittrice che ha studiato, imparato e messo a frutto l’arte e la perizia di JC Oates. Contestualizzazione massima, quasi maniacale: indicazioni topografiche, descrizioni di interni, e poi ancora, marche, stili e nomi: di accessori, di jeans, di scarpe, di gomme da masticare; titoli di libri, di films, di fumetti, di programmi televisivi, che non sono soltanto meri accessori al contesto – come se bastasse un’infilata di nomi per riesumare un’epoca – ma identificativi precisi, puntuali, caratterizzanti. Pagine che mantengono ritmo e unicità grazie alla struttura solida della saga familiare, intessuta di avvenimenti che coprono l’arco di più di un decennio, inframmezzata da momenti di grande lirismo e di crudissima lucidità, che non scade mai né nell’approssimazione, né nel vojeurismo, né nel pornografico.

La matrigna di Biancaneve (ma anche la strega di Hansel & Gretel, o il pifferaio magico) con la sua bellezza algida e perfetta ci spalanca le porte di un mondo alla rovescia in cui per sopravvivere occorre diffidare anche dei buoni – o almeno, di quelli che buoni per lo meno lo sembrano.

mercoledì 8 giugno 2011

"L'ultimo lupo mannaro", di Glenn Duncan

More about L'ultimo lupo mannaro Jacob Marlowe è uno di quelli che se un sabato sera te lo presentano nel privè di una discoteca ci dovresti andare larga, perché l’istinto (sic) ti dice che la frequentazione assidua potrebbe portarti solo dei grandi guai.
Ce le ha tutte, nessuna esclusa: beve, fuma, se occorre si fa pure di amfetamine; non si innamora mai, fa sesso variegato (e pure, a sentir lui, di gran qualità) usufruendo unicamente, per altro, dei servizi ben remunerati di escort di comprovata esperienza & gnoccaggine estrema.
Tra società offshore e conti esteri cifrati, cambia spesso numero di cellulare e non si capisce mai dove stia, né di residenza né di domicilio.
A ciò aggiungi modi sopraffini, vestiario accurato e un certo non so che di snobismo un po’ dandy, così, nel modo in cui sceglie una bottiglia di whisky o in cui, bel principe tenebroso alla maniera della premiata ditta Charlotte, Emily & Anne Bronte, lo sorseggia appoggiato alla pietra di un caminetto scolpito, illuminato dalle ombre soffuse di un fuoco invernale scoppiettante, le spalle rivolte agli scaffali di una biblioteca antica e preziosa. Proprio uno di quelli che fanno la felicità (e l’infelicità) di noi ragazze perdute. Aridaje. (“E di peli | sul petto | ne ha un mar”, per citare quelli della Disney che, per una volta, ci avevano azzeccato; a voi scoprire dove).

Passato questo attimo di femminile smarrimento, proviamo a dedicarci anima e corpo all’analisi dell’opera, che si colloca giusto a metà strada tra il diario epistolare, il racconto horror, la spy story, la gothic novel, il trattatello filosofico e una raccolta di haiku. Tutto mescolato insieme, una mistura potente e venefica di subcultura pop che neanche Chuck Palahniuk nei suoi momenti migliori.

Jacob Marlowe è un tizio stanco. Anzi no; ne ha proprio le palle piene, triturate. Stanco come solo può esserlo l’omino pallido che ci siede a fianco sul metrò, appena uscito dall’ufficio e scoglionato di suo da una giornata (passata) di merda e dall’idea di una (futura) che non sarà da meno, colletto della camicia spiegazzato e nessuna speranza per il week end prossimo venturo.
Che poi JM sia stanco dell’immortalità, è questione accessoria. E’ che oramai ha provato di tutto: ha abbracciato la filosofia stoica, ha affrontato con socratico candore le avversità della vita, si è dato alla pazza gioia del “Maiale Soddisfatto”. Eniente, lo scoglionamento, presto o tardi, arriva per tutti, altro che Edward, macchine di lusso, letture profonde, musica da camera, godimento interiore. Che dire, tanto vale farsi ammazzare. Peccato che poi “arriva sempre qualcos’altro” a rovinarti il progetto.

Via, ne ridiamo anche un po’, di questo “Jacke” (ohssì, ci viene in mente proprio “QUELLO LI’”, di Jacob, quello carino, tutto muscoletti cinematografici e buone intenzioni e sguardo da duro), che tra il serio e il faceto ce li distrugge tutti, i cliché del genere, uno per uno, uno in fila all’altro, senza preoccuparsene troppo, della nostra reazione di fronte al fattaccio (orrore e raccapriccio).
E comunque dovremmo rassegnarci visto che tutti sembrano, in un modo o nell’altro, averci preso gusto nell’inviarci messaggi neanche troppo subliminali sulla questione licantropi e vampiri, con buona pace di Stephenie Meyer.

Ché, alla fine, il licantropo è un pover’uomo neh. Non è così figo d’aspetto, non vola, non ha poteri soprannaturali. Insomma è un poveraccio che una volta al mese si ritrova, per sfiga ricevuta, prigioniero di un corpo che pur non appartenendogli fa innegabilmente parte del sé, un subconscio ingombrante e trattenuto a stento: tre metri di altezza, peli dappertutto, unghie e zanne fastidiosissime e purulente; privazione del linguaggio, fame pazzesca ed erezioni incontenibili. C’è di che compatirlo.
Anche i vampiri per altro non è che se la passino così bene. Possono pure essere glamour, stavolta, ma continuano ad essere lievemente infastiditi da tutta quella serie di piccole defaillance che hanno così tanto urtato la nostra SMeyer da farla capitolare sul più bello: luce del sole, paletti di legno, carenza di sesso, fame di sengue umano, insomma tutto l’armamentario.

Sicché, leggi di Jacob Marlowe e ti prende questo senso pungente di vendetta compiuta, sospiro di sollievo, catarsi dell’animo a sentire le sfighe di quest’uomo che, pur non essendo più tale, conserva in sé la presenza, forte, potente, ossessiva dell’Essere Umano – esemplificato dalle anime delle centinaia di persone uccise, massacrate, sbranate e poi divorate pezzo a pezzo che fanno capolino, di volta in volta chiamate in causa quasi fossero voci di coscienza perduta.
Jacob Marlowe è, e rimane, pur nella sua bestialità truculenta, un essere umano con tutte le sue debolezze e soprattutto con tutte le sue sfortune, che poi si identificano, guarda caso, negli incubi peggiori che attanagliano i sonni di noi comuni esseri umani: il terrore per la solitudine, la paura di perdere la persona amata o quella parvenza di serenità appena conquistata, magari dopo anni (…o secoli) di agonizzante fatica, l’angoscia per una vita di cui, alla fine (causa lavoro, vita privata, merde varie) potremmo divenire soltanto spettatori passivi.

Edward Cullen è un compromesso che la natura di Jacob Marlowe non può accettare: hai voglia a parlare, fino a che l’espediente letterario ti offre la possibilità di seguire una Vegandiet d’autore, massacrando cervi e caprioli in sostituzione della carne umana. Hai voglia a celebrare la vita da vampiro fino a che il tuo bellissimo incarnato risplende alla luce del sole mentre Eli, con la sua fastidiosissima autocombustione spontanea, è soltanto un vago ricordo, darwinianamente sepolto nei recessi della memoria storica di una letteratura che affonda le sue radici addirittura nel Satyricon di Petronio.

La questione più interessante è però l’origine di questa riaffermazione del sé, di qualsiasi sé si tratti. Che non viene direttamente dall’autore, ma nemmeno da un personaggio maschile. E’ Talulla Mary Apollonia Demetriou, che solo ad abbreviarne il nome si farebbe sacrilegio, ad indicarci la via, riappropriandosi di un carattere femminile fortissimo; l’intelligenza sicura, tagliente e la personalità consapevole di se stessa e del mondo circostante la differenziano inequivocabilmente dalle altre “eroine” del suo tempo.
La vita del licantropo (come quella del vampiro) non è fashion, e non lo può diventare, malgrado tutti gli sforzi - e le reinvenzioni letterarie - possibili.
E tuttavia, proprio perché non è degna di essere oggetto di scelta consapevole, diviene degna di essere vissuta.
E così è anche – e soprattutto - per la scrittura: il genere letterario, con tutti i suoi archetipi e topoi, rimane intatto, scevro da ogni rielaborazione successiva allo standard; ma proprio grazie a questo sostanziale principio di “autoconservazione” si ricontestualizza e diviene attuale, e crea da se stesso, senza alcun deux ex machina, quel principio della condivisione del sentimento che sta alla base dell’immedesimazione attiva, e riuscita, tra lettore, autore e personaggio.

giovedì 2 giugno 2011

"Il malinteso", di Irene Némirovsky

More about Il malinteso L’opera prima dell’Irene profuma di talco e lavanda, guance rosee e adolescenti al ballo; eppure porta con sé anche il vento e l’aria fredda di un temporale di settembre, di quelli che se sei al mare, ombrelloni chiusi e sabbia bagnata sotto ai piedi, guastano irreparabilmente la giornata e ti mandano a dire che la stagione, oramai, è bella che finita.
Finisce allo stesso modo, la stagione di Denise, ingenua moglie-bambina, modi affettati, vita facile e bei vestiti, e come l’onda lunga di un mare agitato si infrange sui sassi aguzzi di una spiaggia incolta.

Avere 20 anni ed essere in grado, così giusto per provare, stesa su un divanetto del soggiorno, un quaderno in una mano e nell’altra il campanello per chiamare la servitù, di “buttar giù due righe” e creare dal niente le figure grottesche e raccapriccianti, così vivide perché così reali, di signore attempate, desperate housewives dalle rughe profonde mascherate dal belletto sul viso umido di sudore, che, nell’ombra di locali fumosi, fino a notte fonda esorcizzano il buio e il silenzio dell’animo tra balli, musica, frastuono e alcool, cullando sui loro grembi avvizziti macabri pierrot di pezza e lustrini, feticci di quella bella “stagione della vita” ormai morta e sepolta.
Per tutto il resto c’è l’umiliazione di noi poveri lettori, costretti a confrontarci con un’autrice che dei corsi di scrittura creativa se ne sarebbe fatta un baffo. #Priceless.

L’animo di Yves è rigido e duro come la pietra e la terra dell’Europa corrotta dalla guerra, poco incline al sentimento e alla passione amorosa. Yves cerca la pace e la tranquillità dello spirito: un sospiro di quiete, un guanciale morbido, lindo, fresco di bucato su cui posare il capo, chiudere gli occhi e liberare l’animo dalle inquietudini del mondo, condividendone (cum-patior) con la persona amata i dolori, ma anche le gioie. Denise invece è il fuoco, è l’ardore dell’amore passionale, è desiderio cieco e febbricitante per tutto ciò che un marito lontano, ricco e distante, e – diciamocelo – pure un po’ fesso, non riesce a donarle.

Chissà che Yves non rappresenti l’uomo nuovo, per l’Irene come per la società moderna (e qui sta l’attualità del libro, dramma sentimentale a parte). L’epopea del selfmade man, che, affrancatosi da un’eredità familiare oramai altra, aliena da sé – vuoi di agiatezza e prosperità, vuoi di povertà proletaria – diviene artefice del proprio destino, riappropriandosi di quell’imperativo morale, categorico, che i tempi richiedono: una ri-assunzione di quelle responsabilità adulte che fanno di un giovane figlio un uomo maturo, virile, consapevole delle proprie forze ma anche delle proprie debolezze; un uomo in grado di affrontare le difficoltà della vita reinventando il proprio destino e il proprio ruolo nel mondo.
Tutto quello che il marito di Denise non è: perso in una nuvola fumosa da sigaro postprandiale fumato in biblioteca, un bicchiere di buon vino, è prosecutore passivo di una certa qual tradizione – e ricchezza familiare – fatta di industrie, affari, commerci (neppure gran che identificati, come ovvio), ruoli e posizioni sociali immutabili e indiscutibili nella loro essenza di diritti acquisiti, al di là del talento e dei meriti individuali.

La vita adulta, tuttavia, richiede un obolo in cambio. E lo chiede sia al maschio sia alla femmina: così come l’uomo, acquistando un nuovo ruolo all’interno della vita di famiglia (partecipe, presente, collaborativo – vedi il rapporto di Yves con la figlia di Denise), ma anche sociale e professionale, a contatto con le difficoltà pragmatiche del mondo perderà parte della sua indole passionale e romantica, tornando a ricercare nella donna e nell’intimità della famiglia quel porto sicuro fatto di tenerezza, sollecitudine e comprensione reciproca, così la donna, se desidera al proprio fianco un uomo dalla maturità completa e consapevole, dovrà essere in grado di abbandonare i sogni romantici di passione bruciante a favore di un amore (e non di un innamoramento) duraturo, condiviso, intimo ma di certo meno incline al romanzo sentimentale.