Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

martedì 24 maggio 2011

"Il passaggio", di Justin Cronin

More about Il passaggio Non c’è storia, il vampiro, quello vero, non è glamour.
E’ una creatura mostruosa, bestiale, venuta dal passato, dalle origini incerte e oscure, figlia di un tempo remoto e dimenticato, fatta di artigli, ali e zanne. Come Eli, vivi di vestiti sdruciti racchiusi in scatole di cartone ammuffito, anche se sei ricco sfondato del tuo denaro non sai che fartene, non guidi macchine di lusso, la luce del sole ti carbonizza, bruciandoti le carni dall’interno, come neanche le fiamme dell’inferno da cui provieni, e di pensieri, che ti girano per la testa, ne hai solo uno, costante, malato come una febbre. Oppure – opzione due, qui verificata – sei un abominio della natura (che la dura legge di Darwin avrebbe coscientemente relegato nei recessi ombrosi della foresta pluviale) piegato al volere dell’uomo, un Frankenstein postmoderno nato dalla mente malata dell’Uomo-Dio in pieno delirio autodistruttivo. Un essere a metà strada tra l’umano e il bestiale, vittima di un istinto primordiale contro cui il raziocinio può nulla. 


Echi di letture e generi passati, non stupitevi del dejavù di cose già viste e già sentite, ché se cerchiamo la novità a tutti i costi, passiamo 800 pagine a spulciar tematiche e sintassi senza cavare un ragno dal buco. Sì, parliamo di The Walking Dead e di MadMax, ma anche, ovviamente, di Stephen King (“L'ombra dello scorpione”), Richard Matheson (“Io sono leggenda”), Cormac McCarthy (“La strada”), e anche, se pensiamo non solo al thriller o alla novella post-apocalittica ma anche alla science fiction, a Michael Crichton o al cinematografico e discussissimo Frank Shatzing. E tanti altri. Non stupitevi, dicevamo, ma stupitevi lo stesso, visto che in questo caso non si parla soltanto di mera collocazione di un testo all'interno di un genere letterario ben definito, ma, al contrario, della ri-contestualizzazione del genere stesso attraverso un testo che, paradossalmente, pur rimanendo con i piedi ben piantati nel solco della tradizione, di novità ne apporta parecchie. 


Le tematiche sono diverse, e tutte interessanti, riferibili alla particolare sensibilità Americana per il contesto regionale (crisi economica, recupero del valore del nucleo familiare, ruolo civico della società e della comunità per l’educazione della gioventù) e globale (lotta al terrorismo, guerra preventiva, politica internazionale, educazione al rispetto e alla salvaguardia dell'ambiente), nell’esemplificare una condizione umana che, secondo l’autore, nonostante le difficoltà – o verrebbe da dire, grazie ad esse – non si fa chiusura e alienazione in sé, ma, all’opposto, confronto, collaborazione, condivisione. Tutto all’opposto di quella che potremmo chiamare “esperienza vampiresca”, che amplifica e distorce fino allo stremo la solitudine straniante dell’essere umano, che non è più tale, diventando altro da se stesso, perché sradicato dagli affetti e dal proprio tempo all’interno del mondo. 


Tant’è che nell’immaginario di Cronin il vampiro, che per altro si raduna in gruppo per la caccia e il “riposo” (se così lo vogliamo chiamare), nei momenti estremi, all’arrivo della morte, tende a ritrovare i luoghi di “casa”, ove casa rappresenta tutto ciò che il vampiro-uomo era stato prima della trasformazione: luoghi, affetti, persone care. Non c’è nulla di interessante nell’essere un mostro succhiasangue e nemmeno i superpoteri acquisiti con l’inoculazione del virus sono cool. I protagonisti del romanzo sono, specialmente per quanto riguarda la seconda parte, esseri umani senza doti di singolare interesse. Con dei talenti, certo, ma nulla di particolamente straordinario. Agiscono in base all'istinto di sopravvivenza, spesso confrontandosi con la necessità di decisioni cruciali che poco hanno a che fare con la razionalità propria di menti superiori, ma che molto hanno a che spartire con la sfera del sentimento e della fratellanza (References: here & here).


Interessante riflettere sul ruolo della gioventù e in particolar modo su quello affidato ai bambini: al di là di ogni strumentalizzazione sentimentale, l’autore si riappropria – e spinge il lettore a fare altrettanto – di una particolare dimensione domestica e intima della famiglia e della procreazione: i bambini sono accuditi, nutriti e cresciuti non solo dalla singola famiglia biologica, ma, per certi versi, da tutta la comunità (comunità che non acquista, a differenza della nostra amata Famiglia Cullen, come alcuni hanno fatto giustamente notare, gli attributi tipici di una congregazione religiosa di stampo settario); divenuti adulti in età precoce – meglio, a un’età che sarebbe pure anche corretta, ma in cui oggi, nella realtà del mondo, il massimo che si possa fare è trovar come passare il tempo tra highschool e “prom”, i ragazzi passano attraverso un rituale di dolorosa iniziazione (la rivelazione del mondo da parte dell’istitutrice del nido) e prendono così il posto dei genitori, che spesso, vittime del nemico o di una malattia incurabile (a causa delle precarie condizioni igienico-sanitarie), lasciano il mondo nel fiore dell’età matura. Da qui, l’importanza che tornano a rivestire gli educatori e soprattutto gli anziani “sopravvissuti”, depositari di una saggezza antica e perduta (mai come in questo caso, esemplificata nel ricordo e nella conservazione del mondo che non c’è più), che, nel rispetto e nella venerazione di tutta la comunità, “ri-assumono” in sé il ruolo di saggi, vati, e profeti.


Nota a margine: diversi commentatori (i.e. qui) sottolineano la sostanziale inversione di rotta della seconda parte del volume, quella dedicata appunto all’analisi della comunità dei sopravvissuti, dichiarandola in parte non necessaria, prolissa nel linguaggio, nella descrizione delle situazioni e soprattutto nella presentazione dei personaggi. La necessità di uno sguardo di insieme ci impone di considerare la seconda parte del libro con un occhio di riguardo all’economia generale della storia: la struttura funziona proprio perché – al pari di quanto avviene per l’ultimo dei carcerati sottoposti agli esperimenti medici, di cui conosciamo le vicende pregresse – è funzionale alla creazione di personaggi concreti, definiti nella propria totalità e individualità. Esempio pratico, le “multiple love stories” intese come rapporti affettivi tra i personaggi in senso lato: non solo relazioni amorose (poche), ma anche, e soprattutto, nel senso parentale del termine, tra padri e figli biologici ma anche tra individui di età diverse che riescono ad intessere stabili e duraturi rapporti di affetto e stima reciproca (vedi Amy con Lacey e Brad).


Un aiuto consistente viene anche dall'adozione del punto di vista esterno, che come spesso accade diviene onniscente, grazie a due espedienti stilistici di fondamentale importanza: la trama per episodi, nutrita da consistenti flashback, e l'inserzione di tasselli di memoria postuma: stralci di email, diari, lettere, in un continuo in&out dalla linea temporale che l'autore ha scelto quale fil rouge della narrazione. Oltre che offrire al lettore vivide immagini della portata del “disatro” e delle sue conseguenze, questi escamotage sono utili, anzi fondamentali, per la costituzione di personaggi credibili e completi (qui).


Chiaramente stiamo parlando di un'opera che, già in sé, contiene le premesse per uno sviluppo futuro. I continui flashforwards, definiti al meglio dalla presenza delle date, proiettano il lettore verso una narrazione ancora a venire che, ci auguriamo, avrà il merito di proseguire sul sentiero tracciato dal primo volume: una solida base narrativa supportata da una prosa sciolta e, in alcuni tratti, incredibilmente evocativa.


Per documentarci:
- The Independent
- Material Witness, Fiction for the criminally inclined
- California Literary Review
- Io9(punto)com
- Los Angeles Times
- The Guardian | The Observerer
- Vanity Fair 04042011

mercoledì 4 maggio 2011

"Settanta acrilico trenta lana", di Viola Di Grado

More about Settanta acrilico trenta lana Abbiamo riflettuto parecchio, in redazione, su questa Viola Di Grado. Ce la siamo letta e poi riletta, e le abbiamo sperimentate un po’ tutte perché proprio non capivamo, al principio, come affrontarla.
Come ovvio abbiamo iniziato con una lettura silenziosa; poi però una strana urgenza di ascoltare il suono limpido delle parole ci ha sospinto verso una sillabazione a voce sommessa (ma chiaramente udibile da altri).
Da qui è venuta come naturale la lettura comunitaria, una sorta di reading pubblico tra scrivanie, giusto per mostrare ai colleghi che proprio totalmente pazzi non eravamo e che non era vero che da 48 ore stavamo parlando da soli, mangiandoci le unghie, chini su un libro sgualcito in copertina arancione.
Al principio, era di giorno; poi però, come ovvio, di sera e pure di notte. Sul tram e a casa, sdraiati sul letto. In cucina, alle 7 di sera, in piedi vicino al piano cottura, a far l’aerosol con i vapori del brodo di verdure.
Tutto normale.
Epperò, c’è che qualcosa funzionava, sì, cominciava a decollare. Ma qualcosa ancora no, un bruscolino leggero, movimento impercettibile, nevrastenico. Allora, spazientiti e irritati, quasi inconsapevolmente abbiamo provato a mescolare le carte.

Di giorno - ma con le serrande abbassate e l’abatjour del soggiorno accesa.
Di notte - sul balcone della cucina, con sigaretta, superalcolico e anti zanzare, anche se faceva così freddo che le zanzare erano morte tutte.
In gruppo - ma con un tono di voce così sommesso che il tipo della scrivania in fondo continuava a dire che non si sentiva niente e se continuavamo così allora era tutto inutile.
Da soli - ma a voce così alta che quelli nell’altra stanza irrompevano a suon di sshh con cipiglio da duri e occhio spiritato. (*)

E così, finalmente, qualcosa si è mosso.

Il libro fa fastidio; Camelia è irritante, depressa, borderline, maleducata, perversa e anche un tantino sciocca, suvvia. E poi abbiamo il sospetto che sia carente anche dal punto di vista dell'igiene personale.
Livia, la mamma di Camelia, fa impressione soltanto a immaginarla, smagrita, sporca, gli occhi fuori dalle orbite. Leeds pare un immondezzaio, una discarica a cielo aperto. Wen&brother, due psicopatici da antologia. Il fantasma del padre di Camelia, un giornalista talentuoso, adultero e svampito, che piuttosto di apparire borghese riempie la casa di polvere e buio e poi cade nel più banale dei cliché (borghesi) scopandosi la collega di turno, e non si capisce perché, vista la moglie che si ritrova.
Per di più. Queste persone parlano ma se parlano si capisce poco di quello che dicono. Se ti va male, non parlano neanche e ti devi affidare al corsivo di un penso-non-penso che ad andargli dietro ci perdi il sonno.

E' questione che il disagio, per capirlo, ed evitare di giudicarlo (sia a livello intrinseco, immedesimazione e compatimento – nel senso latino del termine – sia estrinseco, a livello di analisi su forma, stile, grammatica e sintassi), te lo devi vivere nel tuo ruolo di lettore consapevole.
E te lo vivi scardinando le dinamiche di fruizione del libro: dall’interno dell’esperienza stessa della lettura, vedi sopra (*), e dall’esterno, ovverosia attraverso l’approccio al linguaggio.

Facile facile, sistemarsi lì, una bella copertina rigida rilegata, un divano, una tazza di tè speziato, abatjour e plaid - e l’idea di avere di fronte a sé ore e ore di lettura, immense, interminabili, e un testo di quelli in cui “succede qualcosa” e allo stesso tempo, “non succede niente” di non preventivato.
Peccato che la formula non avrebbe funzionato neanche a costringerla, perché non avrebbe eliminato quella percezione distorta che il lettore talvolta ha di se stesso, dell’essere spettatore, passivo e distaccato, dell’esperienza altrui; a favore, invece, non di una immedesimazione che, visto il caso particolare, sarebbe risultata quanto mai imperfetta e parziale, ma di un com-patimento (cum / patior = condivisione della sensazione) che avvicina ma non unisce, in una perfetta simmetria di linee parallele, ed elimina il giudizio.
Ed ecco la questione del pensiero in negativo che tanta parte ha preso sul web, del non ci è piaciuto perché è un libro “strano” che non si sa dove voglia andare a finire (Cielo, se è per quello, non è che abbia neppure un vero inizio, effettivamente, oltre che non avere una "vera fine") e che è “difficile” da leggere.

L’idea è quella del remare contro, ma in completa leggerezza, sospinti, come aquiloni, dal vento freddo del Nord. E di nuovo, contro - e dentro e fuori dal testo.

Camelia è una rematrice furibonda, assomiglia a suo padre più di quanto essa stessa non voglia ammettere. Rema contro l’omologazione giovanile, rappresentata in questo contesto particolare dal mondo del Fashion e, come dire, dell’ Interior Design e del Finger Food; moda fatta a pezzi, vivisezionata brutalmente, violentata, stuprata, con l’ausilio degli strumenti più appuntiti in commercio: taglierini, forbici, punteruoli, aghi, ferri da calza, che tuttavia, accanto alla pars destruens, ne apportano un'altra, costruens, fatta di una tal bruttezza scintillante e assoluta da sembrare quasi (e qui LadyGaga docet) icona di stile (memorabile il vestito di lana grigia, utilizzato durante uno di quei mesi di Dicembre che assomigliano più a un Marzo inoltrato, con i sacchetti di plastica della spesa cuciti alla bell’e meglio in posizione gluteo); arredamento minimale, sciatto, trascurato; sporcizia, luridume, ombre, buio, muffa, scarti di cibo avanzato, incrostazioni su piatti abbandonati, fastfood decadenti.

Rema contro la precarietà del lavoro, fatta di contratti a termine (ebbene sì, anche nella prospera Inghilterra, vedi mai che l’Italia belpaese sia più vicina di quanto si pensa), offerte di impiego sgangherate e datori di lavoro assolutamente improbabili (eppur così reali).
Rema contro la televisione ad ogni costo, di fronte alla quale Livia si abbandona, apatica, indifferente ad ogni contenuto e ad ogni, eventuale, personalizzazione del mezzo; contro le major cinematografiche e le favole a lieto fine (il dvd sempre diverso che in un perverso gioco di specchi, nei momenti meno opportuni appare e scompare dentro e fuori la custodia del presunto film islandese più e più volte noleggiato).

E soprattutto, rema contro la parola decodificata, sempre simile a se stessa e per questo oramai scevra da ogni significato intrinseco, vittima di quella bulimia, tutta contemporanea, da social network e web addiction: linkedin, twitter, facebook, 4squares. Numero contatti, numero amicizie, numero libri letti, numero pagine visitate, numero caratteri digitati. Ad essa contrappone l’identità univoca dell’ideogramma, pura nella sua essenza, imprescindibile nella sua creazione grafica.

A fare da contrappeso alla presenza fisica dell’ideogramma, che a mano a mano che la storia procede, acquista evidenza sempre più formale e fisica (fino a farsi impronta di sangue sul corpo), c’è l’idea della totale, e incontrovertibile, interpretazione soggettiva della realtà, osservata e ricreata attraverso lo specchio deformante di quella che a poco a poco prende la forma della malattia mentale. Un Dicembre infinito, che si autogenera, riproduce e collassa su se stesso senza soluzione di continuità, in un tripudio di giorni, ore e minuti reali, immaginati e fasulli. Un silenzio di tempi, luoghi e parole che è linguaggio visivo – ma, a questo punto, ci chiediamo, fino a che punto reale, o soltanto immaginato.

Allo stesso modo, realtà dei fatti o parto di un’immaginazione distorta, il deserto polveroso della casa abbandonata, che tuttavia prende vita nei momenti schizofrenici di Camelia, euforia e ottimismo che preludono alla caduta ciclica nel vortice della depressione: da sotto le macerie riappaiono così un laptop, dei dvd – siamo sicuri che la ragazza noleggi sempre lo stesso? Perché mai, allora, ne trova all’interno sempre uno diverso? - musica, un telefono cellulare, volantini pubblicitari, giornali, la tv, la radio, un orologio appeso al muro; oppure la depressione di Livia, visto che poi, quasi senza che Camelia se ne renda conto, la donna ricomincia a vivere e a sperare, come se mai, dal mondo, si fosse realmente separata; o, ancora, il presunto voltafaccia di Wen, che più che un voltafaccia crudele e demoniaco sembra la richiesta di aiuto, timida ed educata, di un giovane uomo alle prese con qualche problema di troppo; e il ritardo mentale del fratello Jimmy, che, più che affetto da un concreto problema comportamentale, pare solo un giovanotto grande, grosso, ignorantello e pure un po’ opportunista, diciamocelo; e che dire del damerino Francis (ah, Parigi, la patria dell’Amore e della Felicità Coniugale…), BigJim pluripalestrato che incarna agli occhi di Camelia, guarda un po’ che caso, tutto ciò che il padre defunto non è mai stato, né da vivo, né da morto: WASP, bello, ricco, sorridente, integrato, depilato.
Tant’è che gli appigli razionali di Camelia sfuggono uno via l’altro, lenti e inesorabili, come acqua che gorgoglia e scivola nel buco dello scarico della vasca da bagno, paralleli al climax della storia: nelle ultime pagine una Camelia oramai totalmente dissociata da se stessa, con indosso un improbabile completo tailleur bianco della madre (le scarpe di due numeri in più), ricoperto di sangue (no, un momento, ma siamo proprio sicuri, che Camelia sia davvero vestita così? Perché Francis e Livia sembrano non accorgersi per nulla, di questa mise improbabile che però include - magicamente - il telefono cellulare nella tasca della giacca?), vaga per le vie di una città fantasma in cui tutti, pare, presi dal sacro fuoco dell’amore e della vita, non fanno altro che baciarsi, abbracciarsi, ridere e celebrare l’amore per l’umanità e la terra (e l’ombrello di Camelia, che dovrebbe ripararla dal vento di Dicembre – ma quale Dicembre, se il giorno prima aveva nuotato con Jimmy, in costume da bagno, fino alla grotta segreta; ma quale Dicembre, se le persone intorno a lei indossano con incredibile nonchalance bermuda e ciabattine primaverili – vola via… ma dove lo aveva preso, dicevamo, l’ombrello??).

Si parlava, in redazione, di identità autoriale massima. Ancor una volta ci riappropriamo di quello che è caratteristica fondamentale, e intrinseca, del nostro website: l’idea di una lettura consapevole.
Al di là della questione tutta opinabile, perché soggettiva, della trama e della scelta dell’argomento trattato, (la “recensione” vera e propria è questione che, come più volte ribadito, ci interessa di rado), ci preme sottolineare l’aspetto oggettivo, ovverossia, l’approccio alla lettura. La validità dello stile e, in senso lato, dell’utilizzo della lingua (che si fa anche metatesto e interpretazione, come specificato sopra) è incontrovertibile, e ancor più notevole perché nasce e vive in un mondo di esempi letterari, quale quello proprio di diversi testi contemporanei, soprattutto stranieri, più vicini alla sceneggiatura cinematografica che ad un vero e innovativo approfondimento sulla lingua.

E' che a noi, filologi impenitenti, la lingua italiana piace. In tutte le sue sperimentazioni; e pensiamo che valga la pena di essere approfondita, sempre e comunque.