Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

martedì 28 settembre 2010

"Grigio cenere", di Bruno Agostini

More about Grigio cenere Il secondo volume della “trilogia Agostini” è questione difficile, da affrontare con cautela; pena, l’affanno nell’analisi delle sottotematiche e la svalutazione di alcune meta-letture che ci paiono, invece, degne di approfondimento.
Transizione e trasformazione, queste le prime osservazioni a passare per la mente.

Transizione: l’equilibrio precario ed instabile del primo volume lascia il posto ad una realtà complessa e in divenire, un passaggio a Nord Ovest verso mondi diversi e sconosciuti.
Dalla finanza creativa all’archeologia di contrabbando, dalla politica corrotta ai baroni universitari (un filo rosso di personaggi che si lasciano, si perdono, si ritrovano e si allontanano in un continuo gioco di elastico teso) lo scenario muta, veloce e improvviso come quinta di teatro.
Le contestualizzazioni dell’azione, così diverse tra il primo e il secondo volume, lungi dal frammentare il reale lo fanno composito, sfaccettato, eppure univoco, a mostrare la varietà cangiante di un mondo vivo, fremente, in continua evoluzione e trasformazione.

Finestre che si aprono e si chiudono su vite e mondi paralleli, sovrapposti l’uno all’altro come realtà alternative e compenetrate: gli esponenti dell’Organizzazione (Lisetta Gargiulo con la sua “piccerélla”, don Marzano e don Alvaro, e tutta la bassa manovalanza) e l’Ispettore di Polizia Carmine Bonocore; la nostra amata Elena e il giornalista Vittorio Camporesi; Da Ponte l’antiquario corrotto e il Professor De Castro; don Mimì e la sua libreria e, su tutti, Titina, punto di contatto e di transizione tra molti, se non tutti, i personaggi, e sovrana indiscussa della trasformazione più profonda.

Così come l’astrattezza del bianco si mescola al buio del nero e sparisce nel grigio cenere, così la realtà dell’esistenza, molteplice e composita, è un Giano Bifronte in continua trasformazione, una chimera a sei facce, come quelle che compongo la figura geometrica del parallelepipedo che per sua natura mostra solo una faccia per volta ma, in realtà, di facce ne ha altre cinque, che rimangono nascoste.
La realtà cambia forma, a seconda del lato da cui la guardi (o del lato che ti è dato guardare).
Ce lo fa capire Elena, nella sua riflessione sulle madri indegne e sui figli sfortunati (pag 409). E ce lo fa capire prima ancora Titina, quando, accompagnando Elena in gita agli scavi di Pompei, rivela alla nuova amica il lato oscuro della sua esistenza.

Doppia lettura e doppia interpretazione per tutti personaggi primari.
Lisetta Gargiulo, membro dell’Organizzazione e madre amorevole, vittima di un ingranaggio terrificante di morte e distruzione.
Carmine Bonocore, a metà strada tra il servitore dello Stato senza macchia e senza paura (che però, a quanto pare, accetta di entrare nelle forze dell’ordine per mero calcolo economico ed opportunistico) e il padre di famiglia, una famiglia sconclusionata come tante, con moglie, figlio e psichiatra a carico.
Don Marzano, esponente di spicco di un’organizzazione malavitosa, eppure conservatore (va da se’, ingiustificabile) di principi atavici di rispetto ed onore di fronte alla terra, alla famiglia, alla donna, al comune senso del pudore.
Alvaro Spasiano, la cui ultima, teatrale immagine ci riporta a una stanza vuota; un tavolo abbandonato, intorno odore di fumo e tensioni e corpi: una festa macabra di morte, violenza, vendetta, consumata con un riso tirato all’angolo della bocca e il veleno in gola.
Elena, un turbinante esempio di ragione e sentimento, tutto mescolato assieme in un gomitolo di lana inestricabile. Specchio della verità, il suo nuovo appartamento dai mobili bianchi, verniciati e immacolati, che conserva al suo interno, nascosti tra librerie e tendaggi lindi, il libro dei proverbi napoletani e i versi ipnotici di Enzo Avitabile, quasi stessimo per entrare nell’antro di una moderna Sibilla Cumana.
Vittorio Camporesi, giornalista dal talento forte e intuitivo, perso e smarrito (per ora) nei deliri tossici della cocaina.
Don Mimì e la rivelazione finale, transizione e trasformazione che passa di necessità tra lacrime e dolore, sangue e tumulti.

Il grigio cenere, se spazzato via, scopre mondi passati (quello che non siamo più) e mondi presenti (quello che siamo ora): i corpi degli uomini di Pompei, nascosti dalla cenere del Vesuvio e ritornati alla vita attraverso il bianco del gesso, mostrano, agli occhi di Vittorio, il legame indissolubile tra morte e conservazione (pag 257) - ovverosia, parafrasando, la trasformazione che sempre ci accompagna e alla quale l’essere umano, seppure volendo, non può sottrarsi.

martedì 14 settembre 2010

"La vita di Irène Némirovsky", di Di Patrick Lienhardt, Olivier Philipponnat. Consigli di lettura: una biografia "pubblica"

More about La vita di Irène Némirovsky

Abbiamo fatto i compiti quest’estate. Diligenti, abbiamo preso dallo scaffale la biografia dell’Irene, l’abbiamo messa in valigia e ce la siamo letta tutta, da cima a fondo, seduti comodi sul tavolino in terrazza, un matita dell’Ikea in mano e la tisana digestiva nell’altra, ché di sera, sui monti, scende l’umido.
Twitterando: dedicato a chi ha tempo da perdere - in una delle applicazioni più rognose che esistano quando si parla di fruizione consapevole del testo: lettura lenta & continua, seppur frazionata tentando di destreggiar se stessi tra rimandi, note a piè pagina, virgolettati, bibliografia. Ma ce la si può fare, se sospinti dal desiderio di dover, per forza e per orgoglio, capirne un po’ di più, di questa Irene.

Abbiamo letto in giro di come si sia storto un po’ il naso, di fronte ad un’analisi che privilegi, come in questo caso, l’aspetto letterario – pubblico verrebbe da dire – piuttosto che quello personale, privato, intimo.
Quando una lettura delude le aspettative ci capita, talvolta, di ripensare al “cosa sarebbe successo se”. Abbiamo tentato il passatempo anche questa volta, per vedere se, davvero, l’approccio all’Irene avrebbe potuto essere diverso.
Ne abbiamo convenuto che, ma anche no.
Intendiamoci.

Dal punto di vista contenutistico ne sarebbe venuto fuori un gran pasticcio, certo un po’ più fruibile rispetto alla mera cronaca, tra testimonianze (poche) di vita privata e inevitabile ricostruzione pseudo-romanzata, il tutto inframmezzato dalle note a piè pagina, che sarebbero rimaste ad ergersi quale unico baluardo (indifeso, perché non più supportato dall’utilizzo delle fonti) di testimonianza storica oramai relegata al ruolo di “se hai voglia leggi qui, ma anche no”.
L’Irene non era abbastanza famosa, nemmeno quel tanto che sarebbe bastato perché qualcuno si prendesse la briga di scriverne, in vita.
E nessuno avrebbe potuto testimoniare per lei, tra i parenti: né gli zii dispersi in Russia, né le figlie, che di lei serbano un ricordo di bambine, né la madre, né le rare amicizie. La testimonianza diretta avrebbe lasciato il posto a fatti romanzati, di natura incerta e validità storiografica di dubbia qualità.

La scelta degli autori ci è parsa la più autentica possibile.
Primo, perché ci restituisce un po’ di umiltà perduta. Pensare alla biografia dell’Irene come alla narrazione più o meno romanzata di un talento letterario in fuga dal Nazismo sarebbe stato, ancora una volta, dare adito a quel sentimento di orgoglio che spesso ci spinge a credere che l’unico atteggiamento consono per un lettore moderno sia la dominazione del testo. L’atteggiamento voyeuristico avrebbe fatto presa, ma non era questo l’approccio e soprattutto non era questo il fine.

L’analisi “paleografica” inoltre era l’unico sistema, in mancanza di testimonianze dirette, per identificare e porre in corretta luce tutta una serie di tematiche la cui omissione avrebbe, oltre che svalutato l’opera, anche creato alcuni problemi di interpretazione: l’analisi della stampa dell’epoca, i quotidiani, i settimanali, il romanzo a puntate, i rapporti tra editoria e politica e via di seguito.
L’approccio voyeuristico avrebbe magari dato più riscontro in termini di gradimento, ma avrebbe offerto un’immagine della scrittrice totalmente avulsa dal reale.

Irène Némirovsky non ha avuto una vita particolare, o più particolare di altre – certo, denaro a parte.
Il sensazionalismo non era di casa, presso la famiglia Epstein. Il rapporto con la madre, “solo” una famiglia difficile, come ce ne sono tante altre e come ce ne saranno.
Dipingere un “caso Irene” avrebbe avuto come risultato la mera e sterile creazione di un personaggio fittizio, da gran teatro, che nulla avrebbe avuto a che fare con quella figura di donna oramai così familiare ai nostri occhi: una donna minuta, né bella né brutta, affetta da una grave miopia, amante della vita tranquilla, della propria casa, dei propri affetti.
Ed è proprio questo spirito di tranquilla normalità, che affiora senza indugi, in ogni pagina, in ogni nota, ad offrire la chiave di lettura più autentica: una donna come tante, che ha saputo, grazie al talento, trasformare la sua vita nella vita di molti altri.