Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
Di cosa avete bisogno? Un thriller da leggere sotto l'ombrellone? Una commedia di raffinato humour per il fine settimana in campagna? La lettura di quel certo testo che vi incuriosisce tanto (ma che ancora non avete osato acquistare) deve essere di necessità attenta e scrupolosa oppure può adattarsi anche alle cinque fermate di metrò, il tragitto che tutti i giorni percorrete per andare al lavoro?
Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

mercoledì 18 agosto 2010

"L'ultima estate in città", di Gianfranco Calligarich

More about L'ultima estate in città Combatti. Combatti strenuamente. Contro i cataloghi on line. Contro le librerie che se non è il thrillerone svedese ti guardano male. Contro i non disponibile sparati dai videoterminali.
È una lotta senza quartiere, uno scontro tra titani, altro che Hollywood.
Ma quando ce la fai, e te ne esci con questa cosa in mano, e data la copertina rigida fai pure fatica soltanto a toccarla, per paura che si sgualcisca - che soddisfazione.

Sei preso via in un turbine di parole, di inchiostro, di memoria storica e letteraria che ti riporta indietro, a quando muovevi i primi passi, incerti, pescando a caso dalla libreria di papà, la domenica pomeriggio. E i libri erano sgualciti e sapevano di carta acida e gialla.
E di alcuni ti innamoravi, di altri dopo sei pagine non sapevi che fartene; altri ancora, vuoi per l’età, vuoi per il testo, non ti si schiudevano agli occhi, e te ne rimanevi lì, amareggiata, a chieder consiglio telefonico alla zia, sorella di mamma, che per tutta risposta ti diceva che ogni libro ha un suo momento e che il momento di quel libro lì, per te, non era ancora arrivato.
Avevano titoli curiosi: La Storia, Lessico Famigliare, L’Ombra delle colline, e gli autori di cognome facevano Sgorlon, Sciascia, Calvino, Gadda, Anna Maria Ortese, Parise.
E il divano del soggiorno, di velluto peloso, marrone, così duro che dopo 10 minuti avevi già il sedere piallato a tavoletta.

Tutto questo inutile preambolo per farvi capire che di Calligarich non parleremo. Basta e avanza la rassegna stampa che potete trovare sul web, direttamente sul sito dell’autore.

Le pagine notevoli sono molte e tutte degne di citazione.
La giornata alla Rai per esempio, tra raccomandazioni, stanze chiuse, personale dalle mansioni non ben identificate, spettacolo, veline e letterine. Oggi come allora.
O il cameo su Milano in dicembre, che se a Milano ci vivi, non puoi non sentire una stretta al cuore, di fronte a quella mezza pagina e ai tuoi ricordi di bambina.

Oppure ancora, l’episodio quasi conclusivo, in villa, con il pittore e la sua congrega di adepti. Religioni posticce da guru di periferia, buone per artisti squattrinati, modelle anoressiche, scrittori in attesa di successo (e di raccomandazione). La terra d’Italia negli anni ’70.

Arianna è come tante, femme fatale, psiche fragile e troppi soldi da portarsi in giro. Ma ha a suo merito un certo qual coraggio, un’identità di fondo mai negata (si veda la questione mi ami / non ti amo, che pare puerile, ma alla fine tanto puerile non è) e anzi quasi ostentata, fino alla soluzione finale di annichilimento che non è altro se non uno sfolgorante, ultimo e disperato tentativo di auto-affermazione.

"I cani e i lupi", di Irene Némirovsky

More about I cani e i lupi Che dire. A noi è piaciuto Harry. Si si, proprio lui, così bello, elegante, quasi fosse un divo del cinema. Le mani delicate, lisce e così poco avvezze al lavoro manuale. Un first name così lontano dalle tradizioni familiari che più lontano non si può. Lo sguardo sdegnoso e snob, i vestiti di alta sartoria, i precettori più eruditi, l’educazione internazionale.

Eppure i capelli portati stretti, tirati all’indietro grazie a generose spalmate quotidiane di brillantina, nascondono un segreto. Sono capelli da ebreo di Kiev, scuri, forti, ricci, indomabili. E il tremito delle mani, di quelle mani da gran signore. E gli occhi, fiammeggianti di passione.
Da rifletterci, su questo Harry, specchio e parodia di tutti i tempi, e sul suo alter ego Ben. E sull’errore di entrambi: l’uno, che rinnega per imprinting materno, per convenzione, perché è così che si fa. L’altro, che piuttosto di arretrare – fosse anche solo di un millimetro - sacrifica senza alcuna esitazione vita, amori, denaro, affetti.
In entrambi i casi, medesima pena: l’infelicità eterna.

Le ultime pagine, con la descrizione del parto di Ada, sono veramente significative.

Quando affronteremo la biografia, ne sapremo un po’ di più, anche considerando la cronologia delle opere. Abbiamo però avuto l’impressione di tornare in parte (viste anche le tematiche) a "Un bambino prodigio".
Per essere precisi, ci è tornata alla mente la questione della tappezzeria della camera.
Come se, all’Irene, il professore di Scrittura Creativa avesse dato il compito a casa: descrivere, in meno di una pagina, la tappezzeria che decora una camera da letto di una nobile residenza estiva - Russia pre-rivoluzionaria. Avevamo già analizzato il risultato.

Ecco, qui ci sembra che sia stato applicato lo stesso metodo: partendo da canovaccio noto (difficile relazione sentimentale tra due personaggi contemporanei ma separati da classe sociale, censo, situazione storica e politica, religione) sviluppare intreccio, trama, psicologia personaggi, ambientazione.

Da rifletterci confrontando l’approccio dell’Irene con la scrittura di oggi, questione su cui ci eravamo già soffermati parlando di "Due". Talento a parte, forse la questione deriva da qualcosa di più profondo.
La società dell’epoca - in special modo quella femminile - era votata, piuttosto che all’espressione di se stessa, all’osservazione silenziosa, al ricordo, alla trasmissione della cultura orale e delle tradizioni. La continua osservazione della realtà circostante, nutrita dal silenzio imposto per ruolo e censo, aveva, tra i tanti, oggettivi svantaggi, il merito di sviluppare occhio, istinto e acume – oltre che spirito creativo e artistico.

Forse, se parte della letteratura contemporanea, per assolvere al medesimo compito affidato all’Irene al momento della stesura di "I cani e i lupi", risolve il tutto portando in scena situazioni che non sono reali – o per lo meno realistiche, ovverosia contigue alle esperienze dell’autore, osservate, analizzate e poi rivisitate, ma solo fittizie (ricorrendo ad escamotage quali personaggi limite del patologico o a generi letterari come l’Urban Fantasy) ciò dipende in parte anche dalla ormai ridotta capacità di osservazione, verifica, introspezione, che in alcuni casi è stata sostituita da una marcata espressione individuale che talvolta privilegia il sé piuttosto che l’unità sè-tutto.

Ultima nota, onore alla traduzione.

martedì 17 agosto 2010

"I parassiti", di Daphne Du Maurier

More about I parassiti
Ti punta un non so che di fastidioso, questa lettura. Qualcosa di acuto, irritante. Fin dalle prime pagine. Ti senti a disagio sulla sedia, ci rifletti ma non riesci ad arrivare al perché della questione, pare sempre che qualcosa sfugga via, giusto un attimo prima di essere catturata.
Eppure, vai avanti, pagina dopo pagina perché non ne puoi fare a meno. E la cosa ti snerva parecchio (irritazione parte prima: la fruizione della lettura), perché, per un libro così (cosa vuoi che sia, romanzo di atmosfera, crisi familiare, upper class), vorresti essere tu, quello che governa la situazione. Ti senti anche un po’ spostato, in balia di una narrazione che per le prime 20 pagine almeno non sembra condurre da nessuna parte.
A un certo punto, intorno a pagina 15, vorresti anche un po’ mollarla lì la cosa, ma poi, improvviso, arriva “tutto il resto” e non è che ci puoi fare molto.

“Tutto il resto” è il passato, che riaffiora a getti discontinui, ma sempre più forti e potenti (come l’acqua del mare che sale su della sentina, vien da dire...).
Ricordi che ti ottenebrano la mente, persi tra i flashback di un passato lontano, privato di qualsiasi coordinata di tempo e di spazio - teatri, hotel, appartamenti, città, lingue diverse – “Stagioni” senza né tempo né luogo, commedie, impresari, orchestre, matinée, musica, balli e feste notturne. Un mondo privato, personale, intimo, scardinato da qualsiasi logica e pretesa di normalità.
Il caos regna sovrano (irritazione parte seconda, il contesto), tra orari mai rispettati, bambini selvaggi, domestici con veci di genitori, capricci di artisti e presunti tali, turbinanti mondi di spettacoli che sono piece teatrali sia sul palcoscenico, sia fuori.

Non che l’autrice – o meglio, la voce corale a cui si affida, per lo meno all’inizio del romanzo – dia un’interpretazione univoca, alla qual cosa (irritazione parte prima: la fruizione della lettura, vedi sopra). E ti urta davvero, l’idea, perché è sempre irritante quando qualcuno si prende la briga di farti osservare le tue, personali, mancanze.
La fascinazione per il mondo dello spettacolo, per questa famiglia di artisti, per le vite vissute, per quelle rappresentate, per quelle soltanto immaginate, è in te così potente da non permetterti, per ora, la minima possibilità di uno scarto verso il negativo – malgrado il desiderio intimo.

Perché “Tutto il resto” non solo è “Mamma e Papà”, ma è anche Maria, la primadonna, l’attrice bellissima, la donna dalla pelle di porcellana e lo sguardo sognante, adagiata sul divano nel salotto di una casa di campagna, in una fredda e cupa domenica di inverno, un braccio sospeso, l’altro reclinato sul volto. E’ lei, nella sua parte da diva del palcoscenico, attraverso falsità e maschere, a dettare legge. Non solo sui suoi familiari e sul mondo che la circonda (irritazione parte seconda, il contesto, vedi sopra), ma anche, disgraziatamente, sul lettore (irritazione parte prima: la fruizione della lettura, vedi sopra).
E’ Niall, spirito inconcludente, in balia degli eventi, delle donne e del suo estro di compositore di jngle buoni per casalinghe, soldati, barbieri e lustrascarpe. Ragazzino viziato e mai cresciuto del tutto, deresponsabilizzato, irritante nel suo disprezzo egocentrico per il mondo scintillante del successo – che tuttavia, malgrado i propositi, mai abbandona - e le fatiche degli uomini (irritazione parte seconda, il contesto, vedi sopra).
E’ Celia, vittima inerme prima dei genitori e poi dei fratelli (che poi, per la cronaca, hanno sangue in comune con lei ma non tra loro). Curioso: sarà proprio Celia, unica progenie per così dire legittima del clan Delaney, a rinunciare al talento, alle ambizioni, alla fama e alla celebrità, che forse sarebbero potute arrivare attraverso il disegno e la scrittura. Scialba, grassoccia, timida, introversa, passerà la vita al capezzale di chi ne avrà bisogno, cercando di compensare così la tenerezza, l’affetto e il sentimento di cui mai era stata oggetto da bambina, ma con l’incapacità totale di un recupero – e rinnovamento – di se stessa e del mondo che la circonda (irritazione parte seconda, il contesto, vedi sopra).

Nessuno si salva: né Mamma, morta per un incidente all’apice della carriera, né Papà, spento in vecchiaia, minato nel fisico e nella mente, umiliato da una leggera demenza aggravata dal consumo eccessivo di bevande alcoliche, che lo rende ridicolo agli occhi della famiglia, della servitù, degli estimatori di un tempo.

Solo al termine della lettura il giudizio sospeso rientra nei canoni, e rende nuovamente visibile quello stridore - quella vocina interiore – insomma quel sibilo all’orecchio che ci angustiava tanto (toh, c’è ancora, ma da che parte arriva?).
In un modo o nell’altro, siamo arrivati ad essere, soltanto e ancora una volta, meri spettatori di fronte al palcoscenico. Come sia potuto succedere, non riusciamo a capacitarci.
I Delaney stessi l’avevano predetto: “La gente parlava male di noi già quando eravamo bambini. Ovunque andassimo, riuscivamo a suscitare una strana ostilità” – pag. 18. “Quando si gioca a (...) nessuno sceglie mai “I Delaney”. Non ci scelgono neanche uno per uno come singoli individui. Ci siamo guadagnati, e non sempre giustamente a nostro avviso, la reputazione di ospiti difficili” – pag. 205.
Di fronte a simili affermazioni, abbiamo corrugato la fronte, perché non ne capivamo il senso, così, a metà lettura. Facendo spallucce le avevamo archiviate, ma il sibilo all’orecchio era sempre lì, non se ne andava.
Il merito della Du Maurier sta proprio nell’averci portato, con subdole armi letterarie (irritazione parte prima: la fruizione della lettura, vedi sopra) e un felice intreccio che mescola il prima e il poi, a ricoprire lo stesso ruolo dei muti spettatori che non hanno fatto altro se non osservare, distrattamente, le vicende della famiglia Delaney, nel trascorrere dell’esistenza: il fascino per questa famiglia sconclusionata, vittima di se stessa e degli eventi, si trasforma ben presto in fastidio e irritazione, sentimenti che non sono mitigati neppure dalla conclusione del romanzo, che anzi, risveglia nel lettore un’inquietudine sottile da senso di colpa mal celato.

La chiusa, di notevole impatto, è composta da sei capitoli conclusivi, uno per ogni fratello, concatenati, ritmici nel loro insieme di struttura a chiasmo: a Farthings, nell’ordine, pre-cena con Niall in camera, Maria nella vasca da bagno, Celia, che erra vagabonda da una stanza all’altra.
Successivamente, dal capitolo 23, Celia, Maria (significativa l’ultima immagine che abbiamo di lei, attraverso lo specchio della toilette, mentre la guardarobiera termina la vestizione, ennesima mascherata senza logo né tempo) e infine, a conclusione del tutto, passato, presente e futuro, Niall e l’acqua di un ritorno. Acqua di mare, come quella che inghiottì sua madre e che, guarda caso, non riporta altro che la nostalgia per un passato perduto di figlio amato, unica parvenza di una vita di equilibrio e stabilità di affetti e luoghi che soltanto la vecchia nutrice era stata in grado di procurare.

Note a margine:
  • Degno di interesse uno dei capitoli centrali del libro, quello sulla “maternità” di Maria, e sul suo rapporto con la primogenita appena nata. Una lezione di puro babyblues: onesta, lampante, precisa, scabrosa, che pochi, oggi, hanno il coraggio di celebrare (mi viene in mente la Cristina Comencini di “Quando la notte”). Come anche la parte conclusiva su Celia e l’amarezza dell’orologio biologico, tictac, tictac.
  • Immediato il raffronto con “Un passato imperfetto” di Julian Fellowes (Neri Pozza, 2009) e “Ritorno a Brideshead”, come dire, parafrasando Yates, che se non parli di famiglia, nei tuoi libri, non parli di nulla.

"Due", di Irene Némirovsky

More about Due In un’epoca in cui di Urban Fantasy non si parlava ancora - e neppure la si sognava – ecco qui un bel ritratto multiplo, e ante litteram, di Isabella Swan Cullen. O almeno, così pare, per ora. Perché tiriamo in ballo Twilight (aridaje, ne parlino bene, ne parlino male, basta che ne parlino) - che poi, per altro, non è che noi si sia particolarmente contro la questione Cullen: parte della critica, soprattutto sul web sostiene, secondo noi a ragione, che la validità del fenomeno risieda nella capacità che ha avuto il libro (Holliwood a parte) di suscitare riflessioni e stimolare la querelle del pro e del contro.
Quindi – morale della storia - ne parliamo.

Dicevamo. In senso lato, l’adolescenza & i suoi tormenti. La malinconia del crescere, le strade che porteranno al domani - un futuro indistinto e remoto, creato (oppure subìto) grazie a (o a causa di) scelte spesso definitive che, essendo tali, precludono altre possibilità che sondate non lo saranno mai.

E’ curioso il parallelismo con Bella Swan. Bella immagina, fantastica sul suo futuro, ama, con le profondità del cuore e della mente così come soltanto un adolescente sa fare, agisce in maniera avventata. Faccia bene, faccia male, è questione da considerare in altra sede.
La differenza con Marianne “Marion”e Antoine? Nessuna. Per ora.
E quindi? Ora ci arriviamo.

Viene da domandarci che fine abbia fatto la nostra realtà contemporanea, se per mettere in scena i tormenti dell’adolescenza, che fanno indiscutibilmente parte del nostro vissuto, abbiamo bisogno oggi di una novella di urban fantasy (come è Twilight) o di personaggi al limite del vissuto normale, quotidiano, sperimentato dai più, come possono essere, poniamo, eroine vittime di autismo, droghe, alcool, infanzia difficile, situazioni al limite, oppure ragazzine superdotate dal QI superiore alla media.
Perché l’irene ci riesce, invece? A scrivere di realtà basandosi solo su ciò che vede – e da dire poi, il suo mondo era sicuramente più ristretto del nostro – e che sperimenta intorno a sé, e noi, ce la facciamo un po’ meno? Un punto su cui riflettere – noi per primi, ancora il dilemma non l’abbiamo risolto, quindi, via libera al commento selvaggio (e all'insulto, se lo ritenete opportuno).

Avevamo già sottolineato (a proposito di Jezabel) quella necessità intrinseca propria di ogni personaggio dell’Irene: l’inscindibilità di personaggio e contesto. E qui ci siamo: qual è lo scopo che l’Irene si prefigge. Ancora una volta, la vita all’interno della realtà del mondo. Sarà la realtà stessa, attraverso le gioie, le sofferenze, i dolori; il matrimonio, i figli, il lavoro (prerogativa maschile, questa), le guerre, i lutti, le nascite, la malattia, a plasmare l’uomo e a consegnargli quel bagaglio di esperienze chiamate passato, che formeranno la sua vita.
Tutto il contrario di quanto accade a Bella Swan e ad alcune altre eroine del tempo presente: Bella cerca l’eternità dell’adolescenza, un momento perfetto e irripetibile, congelato in un istante di pura perfezione, fisica e mentale, e poi ripreso e rivissuto per l’eternità – il tutto esemplificato, possiamo concludere trivialmente, dalla dicotomia Edward / Jacob, che della vita, della trasformazione dell’Uomo, del sentimento e della corporeità è il vero esponente.
Da rifletterci.

***

Merito dell’Irene, l’idea di precisa sintesi che offre al lettore – né troppo, né troppo poco. Un equilibrio magico di scritto e taciuto, di verità e sospetti, di parola detta e pensiero intuito, solo immaginato. Ci si domanda quante vite abbia vissuto, l’Irene. Forse due, tre, tutte insieme: la sua incredibile agilità camaleontica la fa uomo d’affari, adolescente ai primi drammi, moglie matura, madre, amante; anziano padre di famiglia, governante, nurse amorevole.
Non avevamo ancora messo a fuoco uno degli aspetti del talento dell’Irene, quello della scrittura su commissione. Spesso si pensa all’ispirazione: un qualcosa che nasce dall’idea del momento, dalla realtà dell’esistenza trasformata nel magico dell’opera letteraria. Ora; a una prima lettura, una differenza tra opere nate dall’ingegno del momento, e successivamente pubblicate, e lavori come dire, commissionati dalla necessità, non è che sia di grande evidenza. Annotiamo l’osservazione a margine e proseguiamo nella lettura integrale dell'Opera, aspettando di confrontarci con la biografia per utili rimandi alla questione.

E’ il primo libro dell’Irene che leggiamo tutto d’un fiato, dal principio alla fine, senza fermarci. Dovevamo fare questo esperimento.
Tempo di lettura, 8 ore. Risultato, un mal di testa feroce.
Ma la lettura continua non ha prezzo. Per tutto il resto, c’è l’Ibuprofene.