Chi siamo (e come funziona)

Guardate, spulciate, leggete a piacere: qui si scrive per voi. Di libri.
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Qui, di opere, ne troverete alcune. Lette e poi schedate per "modalità di lettura" (veloce, lenta, frazionata, continua...); utilizzando le etichette cercate quella che più vi piace, quella che più sentite vostra, quella che più si adatta alle vostre esigenze del momento.
Perché, non temete, c'è sempre un libro giusto al momento giusto. Conclusa l'opera, tornate qui: per ogni libro consigliato viene pubblicata una banale guida alla lettura, senza pretese. Si tratta solo di alcune note che si spera possano esservi di aiuto per approfondire, magari solo in parte, le scelte stilistiche dell'autore, i legami sottesi alla trama, la psicologia dei personaggi.
Quindi... Buona lettura! E se avete domande, complimenti, stroncature terribili ... scrivete! info@appuntidicarta.it ADC risponderà a tutti! (O almeno, farà del suo meglio). Trovate ADC anche su Twitter.

Bio: ufficialmente, ADC è una delle tante invisibili e silenziose figure che popolano il vario mondo delle CEO's PA.
Di solito quando non lavora (ma anche - ogni tanto - quando lavora: il suo capo è uno comprensivo) legge.
Siccome ha studiato il greco antico per dieci anni, non disdegna qualche capatina nella filologia classica, se l'occasione lo richiede.

lunedì 12 aprile 2010

"Easter Parade", di Richard Yates

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Prova evidente di come si possa (se si vuole) andare molto più in là di ciò che ci viene proposto dalla letteratura di genere e da Hollywood, questo diabolico Yates fa saltar via in un colpo solo, con un tocco secco di scalpellino ben azzeccato, tutto quello che di pre-costruito ci circonda. Letteratura di cui, francamente, oramai da anni ne avevamo un po' piene le tasche.



L'esaltazione del successo a tutti i costi, la celebrazione del "self-made man", la glorificazione di una cultura di massa in cui anche l'essere anticonformisti diviene quasi uno studio di maniera che si riduce, puntualmente, in una mera e pedissequa imitazione di qualcosa già inventato da qualcun altro.

Ci sono tutti gli ingredienti giusti.
Le due sorelle della classe media (quella famosa dei Wheeler, quella "in ascesa", quella delle grandi aspettative made in USA): due vite diverse eppure così simili nella loro crudezza e inconcludenza, come a dire che nessuno si salva, né la bella casalinga di provincia con il grembiulino inamidato, la cirrosi epatica da alcool e la faccia gonfia delle sberle prese dal marito, né la brava giovane emancipata sia nel lavoro che nel sesso, che paga con il deserto dei sentimenti e della solitudine una vita sempre alla ricerca inquieta (e vana) di un non ben dichiarato obiettivo di redenzione personale e di emancipazione familiare.

La società che cambia, il mondo frenetico della città (quasi un Sex & the City ante litteram per la "piccola" Emily, ci verrebbe da dire, se non avessimo paura di mostrarci irriverenti nei confronti di questo Yates in forma così - si fa per dire - smagliante).
Gli uomini, capitolo a parte. Che uomini. Qualcuno si salva? Parrebbe di no. Se non si salva Yates, non si salva nessun altro. Tralasciamo le avventure più o meno occasionali; figure di necessità soltanto abbozzate e citate appena, e anche qui davvero grande l'abilità di Yates che attraverso una curiosa operazione di meta-testo ci rende partecipi della dimenticanza: la difficoltà di Emily nel ricordare nomi, visi e situazioni rende questi figure di burattino, ai nostri occhi, ancora più marionette di come potrebbero essere realmente.

Troviamo questo Easter Parade (1976) veramente più maturo del più giovane Revolutionary Road (1961), e molto più interessante. I parallelismi tra le due sorelle, l'analisi della famiglia, sempre assente, sempre irrimediabilmente poco coinvolta nella vita dei congiunti (la Pookie del libro non è altro che la Dookie madre dell'autore, in un ritratto assolutamente identico e sovrapponibile). L'analisi della società, che dovrebbe essere stimolo e riflessione, e che invece diviene soltanto solitudine, incongruenza, falsità, inutilità.

Se in RR i giovani nutrivano in sé i germogli per una nuova rinascita, in EP anche la generazione successiva si trova a dover fare i conti con la precedente, in una sorta di nemesi storica senza scampo e senza fine: come le sorelle a confronto con la madre, così i figli / nipoti a confronto con il vecchio padre / padrone in un certo senso ne assolvono le responsabilità: anche quelle più drammatiche (e l'animo resta quieto e in pace, anestetizzato: emblematica la chiosa di Emily, nel garage del nipote, sull'andare in bicicletta).

Ci vorrebbero pagine e pagine per affrontare ogni singolo aspetto della scrittura di Jates. Basti qui annotare la descrizione dell'ineffabile, che attraverso l'analisi di particolari insignificanti rimanda sempre ad altro (la polvere sulla scatola delle lettere riposte nello sgabuzzino, l'intimo della vecchia madre visibile da sotto la vestaglia, le cravatte appese nell'armadio), e anche attraverso tutte quelle meravigliose espressioni di cordialità forzata, di compassione e di circostanza, ancora in fase di abbozzo in RR ma così vive qui in EP.

Ultime riflessioni: personalmente non concordiamo con le ipotesi di "cinismo" piuttosto in voga al momento. Non si tratta di cinismo verso una realtà di base valida seppure complessa e di difficile interpretazione. Si tratta di rivelare, senza troppi orpelli, la vacuità di qualsiasi struttura sovrasensoriale atta a modificare, reinventandola, una realtà tipicamente "made in USA" che di adorabile, magnifico, meraviglioso ha ben poco. Non a caso, tematica riscoperta oggi, durante i tempi bui di quella che noi Europei chiamiamo, a ragione, recessione.

"Revolutionary Road", di Richard Yates

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Potremmo occuparcene per giornate intere. Da approfondire, preferibilmente in original language. Nella prefazione di Ford utili rimandi a tanti autori che varrebbe la pena analizzare. Minimum Fax da vedere a catalogo. 
Giubilo totale per un buon libro, solido, valido nella struttura, coerente nella trama, un prodotto letterario fine e ben costruito soprattutto nei dettagli e nella caratterizzazione dei personaggi.
Scetticismo sottile e controllato per personaggi al limite della caricatura, esasperati e distorti, quasi come spiati attraverso il fondo di uno spesso bicchiere da cocktail; descrizione di paesaggi al limite dello stereotipo e travalicanti anche la più classica delle puntate di Happydays. 

Per rifletterci, ci servono paragoni e confronti.

Interessante il concetto citato qui e là, secondo cui, alla fine, la ricerca dell’elitario e della preziosità intellettuale porta alla rivalutazione e alla ricontestualizzazione del brutto, del banale, del popolare, del vecchio (vedi l’episodio della “Capannina da Vito”, oppure la “moda” nascente della ristrutturazione di vecchi edifici contadini). 
D’altra parte non abbiamo fatto molta strada in più, se pensiamo alle ricontestualizzazioni architettoniche attuali di aree ex industriali quali le acciaierie Falk, nelle zone ormai urbanizzate della Milano Nord, o in quelle della Bovisa; per non parlare dell’improvviso revival delle vecchie osterie sui navigli, di cui conserviamo arcana memoria attraverso le fotografie unte e scolorite di bisnonni e vecchi zii, ritratti in posa cameratesca, in piedi davanti alla vetrina o seduti al tavolino con un fiasco di vino e un bel bicchiere pieno in primo piano.

Vedi anche il personaggio di Shep, che in nome di altri, nuovi e fecondi ideali (e il gregge qui, attenzione ai fantastici “nomi parlanti”, la fà da padrone), abbandona la strada veramente d’elite indicatagli dall’educazione impartita dalla famiglia d’origine per rifugiarsi in un qualcosa che di elitario, ormai, ha ben poco, anzi non ha mai avuto nulla.

Da analizzarsi anche dal pdv dei rapporti familiari, non crediamo siano da tralasciare anche se sono, in parte, di marginale importanza. 

Il rapporto o meglio il NON-rapporto con le famiglie di origine e la costruzione di mono-nuclei familiari sradicati dal contesto economico, culturale e sociale di provenienza. La liberalizzazione della donna che tuttavia, nella sua strada verso l’emancipazione, può contare solo su se stessa e non su quella rete di sicurezza emotiva composta da madri, sorelle, zie, nonne, su cui si è sempre fondato il nucleo familiare occidentale.

Da notare, curioso che non si parli mai di religione. Come ultimi, credo spicchino su tutte, il ritratto del “matto che parla” e quelli, sfocati, di tutti i non ben specificati “bambini” che gravitano intorno alle vite dei grandi senza veramente farne parte, figure di piccoli cuccioli indifesi, che forse conservano in sé il germe per una società nuova, sempre se riusciranno a sopravvivere ai cataclismi familiari e alla nuova, spumeggiante, eclettica “era del calcolatore elettronico”. Che premonizione. 

Lasciamo ad altri la validazione della trasposizione cinematografica, a noi basta questo.

"Un bambino prodigio", di Irène Némirovsky

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Nel corso di una piacevolissima conversazione con uno dei “Signori Giuntina”, alla Fiera del Libro di Torino, la persona in questione ci raccontava, tra le varie curiosità, di come in realtà fossero stati loro a pubblicare per la prima volta L’Irene Némirovsky (e anche Aharon Appelfeld, per la cronaca), e di come poi i possessori dei diritti di pubblicazione fossero emigrati verso altre case editrici di più vasto respiro. Occorrerebbe sentire le ragioni di tutti, e analizzare nei dettagli i perché di questa scelta; però, comunque peccato, perché a noi piacciono queste edizioni in cartonato ruvido, senza foto in copertina, la carta spessa e la tinta che vira all’avorio. Ci piaceva l’idea. 

Ad ogni modo. 

L’Irene non è una scrittrice, è una pittrice di atmosfere. Paesaggi perduti, descritti così come affiorano dalla memoria e dalla malinconia. Malinconia per un mondo perduto, infelicità profonda e taciuta verso una terra “nuova”, che non appartiene, e verso un passato “vecchio”, da cui si è stati definitivamente esclusi. 

I personaggi di questo racconto giovanile (ma che di giovanile ha francamente ben poco) hanno ormai abbandonato la loro dignità di uomini dal carattere fermo e coraggioso, seppure provato da una delle più indicibili sofferenze dell’animo – l’esilio dalla propria terra natìa – per diventare nulla più che poveri esuli disperati, alla vana ricerca di una pace interiore che mai arriverà, almeno in vita. 

“L’Irene”, all’epoca di questo racconto, era una ragazzina di appena 22 anni, figlia dell’alta borghesia russa, la famiglia espatriata a Parigi perché di religione ebraica; la ragazza è bella, coltissima come la classe sociale prevede; divisa tra gli studi e le amicizie, la sua è la vita agiata di una ragazza benestante, scandita da cocktails e partite al gioco del tennis. Eppure, ecco ciò che ha saputo partorire il suo animo (troppo) agitato e (troppo) sensibile. Un racconto perduto, di una bellezza struggente, un momento di speranze cercate e mancate che termina con un velatissimo - ma impossibile da non cogliere – terribile elogio al suicidio come termine ultimo per una, soltanto ipotetica, redenzione dell’animo. 

Ecco, noi lo consiglieremmo tra le letture scolastiche questo libello, rischiando la censura preventiva. Prova evidente di un’adolescenza difficile, che è difficile per tutte indipendentemente dal periodo storico e dalla classe sociale; dimostrazione di un talento precoce tutto da sondare, idee magistrali e realizzazione ancora meglio nonostante qualche scivolone nel banale che perdoniamo volentieri. Lettura critica, attenta, e cerebrale, molto lontana dalla prosa “cinematografica” che spopola così tanto, ultimamente, nelle nostre librerie “della lettura facile”. 

Ultimi appunti di carattere prettamente tecnico. L’aggettivazione, da alcuni considerata un po’ leziosa, è invece per noi, filologi impenitenti, quasi paradisiaca (merito anche della traduzione, suppongo). Finalmente qualcuno che di qualitativi per ogni sostantivo ne mette due... e non uno soltanto, come fosse sparato così a casaccio. Se metti un aggettivo, vuol dire che ci hai pensato (forse, tendenzialmente); se ne metti due, vuol dire che le cose, quelle che scrivi, te le sei davvero immaginate. Le hai sentite con le orecchie, viste con gli occhi, annusate con il naso, toccate con i polpastrelli delle dita e assaggiate con la lingua. 

Come la descrizione dolce e violenta e immediata della fetta del cocomero, o dell’inverno siberiano, o delle stole di seta e diamanti che rivestono gli abiti della “principessa” (un esempio per tutti, a metà libro - pag. 38 - il paragrafo sulla fine del ballo, con le luci che si spengono ad una ad una e gli specchi “umidi”, un’immagine così vivida, precisa nei suoi contorni fisici e tattili). 

Nessun commento sulle cinque righe (pag. 41) dedicate alla tappezzeria consunta del villino di campagna: sfido chiunque a riuscire a riempire cinque dicasi cinque righe con la descrizione di una tappezzeria vecchia, umida e mangiucchiata senza scivolare nel drammaticamente insulso. E lei ci riesce. Come? Descrivendola attraverso i deliri che i giochi delle ombre sui muri provocano nella mente di un ragazzo solo e disperato, costretto a letto da una febbre cerebrale. 


"Sorella, mio unico amore" di Joice C. Oates

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Stordisce questo pezzo di bravura della nostra Oates. Ci devi mettere impegno, mente, cuore, e una forza fisica che ad oggi poche letture francamente suscitano ancora, per sondare ogni lettera, ogni parola, ogni sfumatura nel linguaggio, ogni collegamento nascosto. Occorre scavare a viva forza e violentarne la lettura; ma che risultato. Il libro è un tutto contro tutti magnifico e potente, una lettura di metatesto che spinge ad una fruizione attiva a partecipe, pressante, instancabile, indefessa. Non puoi mollare, non puoi rassegnarti, non puoi lasciarlo a metà. DEVI continuare, malgrado la fatica di una prosa volutamente difficoltosa e in alcuni momenti così simile ad uno “stream of consciousness” tra i più classici e riusciti, una consecutio temporum complicata da repentini flashback & forward, una dimensione monumentale.
Un libro contro i libri, quelli da spiaggia, quelli da thriller facile, quelli scritti “grandi” e la sovraccoperta rigida con tanto di fascetta pubblicitaria di grido. Un libro contro la massificazione della letteratura, della stampa e in generale della parola scritta; contro la desensibilizzazione sensoriale prodotta dal sensazionalismo cinematografico di stampo holliwoodiano.



E che strano, ci si può domandare se questi libri-contro siano sempre esistiti oppure se siano un bel prodotto di questa new economy, di questa crisi evidente, di questo si-ricomincia-da-capo.



Ci piacciono i virgolettati sulla sintassi “degli altri” contrapposta a quella di Skiler, tutti una citazione di frasi fatte, molto presenzialiste, molto da cerimonia, molto glamour così vicine al metatesto di Yates (ricordi, tutti gli “adorabile”, “magnifico”, “meraviglioso” di Easter Parade). E’ sufficiente aprire il libro a caso: “pittoresco”, “storico”, “traumi non superati”, “completamente isolata”, “in compagnia” (di un’altra donna).
Un libro contro il successo ad ogni costo che cela, nasconde e all’occorrenza dimentica gli orrori dell’esistenza, tutti infilati poi a forza nel nostro subconscio o, peggio ancora, costretti, morti e insanguinati, in un buio, muffoso locale caldaia di una “meravigliosa” villa di provincia in stile neo-pseudo qualcosa che più artefatta di così non si potrebbe.
Un glorioso contro-inno venefico, un’esaltazione al contrario di quella psichiatria da spettacolo il cui unico scopo è il voler ravvisare patologie del tutto immaginarie per giustificare poi la sperimentazione e la somministrazione di qualsivoglia farmaco dagli effetti collaterali non ben specificati; un’invettiva mal celata verso le multinazionali caterpillar, verso la ricerca genetica disgiunta dall’etica, verso l’affermazione sociale che va a discapito della famiglia e della vita di coppia. Curioso e sottile, in un duplice gioco di specchi, il fatto che la Oates attribuisca il ruolo di “paladini della famiglia e della cristianità” (e dei valori conservatori legati alla casata Bush) proprio a coloro che meno incarnano, con le loro azioni, il ruolo di Padre e Madre.
E che dire del povero Skyler, così lontano dal figlio che il buon padre di famiglia (WASP così buono, così onesto, così fedele, così affermato, così INTEGRATO - ? - ) vorrebbe possedere e mostrare agli altri quale simbolo della sua ascesa sociale, economica, culturale: accusato di omicidio, depresso, impasticcato, esautorato dalla vita e dalle scelte che essa impone, trasandato, irrimediabilmente alterato nella psiche e nel fisico.
E ad evidenziare l’alterazione mentale di chi, da genitore, non riesce più a verificare lo scarto tra l’ideale e il reale, ci pensa la Oates, descrivendo il figlio perduto prima attraverso i rimproveri della madre (al momento della foto per le cartoline di Natale: sta dritto, non stare curvo, per dio non zoppicare, non fare smorfie), poi attraverso le sensazioni del figlio (eppure, a Skyler NON sembrava di zoppicare o di fare smorfie) e infine attraverso il magico specchio della medesima fotografia perduta e ritrovata: un ragazzo esile, timido, sorridente, “quasi sereno”, come Skyler 19enne vede se stesso.
Eppure, forse (non lo sappiamo), al contrario di ciò che succede ai personaggi di Yates, Skyler ce la farà. Come nel finale del magistrale “The Truman Show”, la vita si Skyler si chiude proprio nel momento in cui vorremmo sapere “cosa ne sarà di lui”. La sua vita, vissuta per anni sotto i riflettori di una notorietà indesiderata, sondata in ogni suo più intimo dettaglio dalle dita umidicce di un pubblico morboso, viscido, insistente, scandaloso, impuro, dal momento dell’epifania in poi ci sarà sconosciuta: lo spettacolo è finito, le luci, sul palcoscenico, finalmente si spengono.